LUCIO TUFANO

Il ‘15-‘18 passò come l’epopea della Vittoria, di quella grande guerra decorata di monumenti e di bandiere, di disfatte e di caduti, che segnarono nelle popolazioni civili, inermi e miserabili, del meridione d’Italia  e nei reggimenti impegnati sulle linee del fuoco, un oscuro bilancio di morte.

È bene qui riprendere, con la lente che ci è congeniale, e per inestinguibili paragrafi, i fatti e le vicende al fine di cogliere pienamente i nessi tra storia e microstoria, le condizioni socio-economiche ed umane, la trama di quei giorni.

Potenza città militare e patriottica era piena di soldati. Si preparavano nel corso di quei giorni doni ai combattenti e feste in ospedale per i soldati ricoverati, si susseguivano le conferenze delle  signore per la Unione Italiana di Propaganda, il regio provveditore dissertava del ” dovere presente” alla Unione Generale Insegnanti.

Su iniziativa del Comitato femminile della Croce Rossa, presidentessa la signora del Prefetto, l’avvocato Sergio De Pilato teneva i suoi discorsi su ” Luci ed ombre del turbine immane”. Nelle aule inquiete del Liceo Classico si recitava con fervore «Saluto italico» di Carducci e la «Canzone d’oltremare» di D’Annunzio e si intonavano gli inni nazionali e le marce militari.

Nei cinematografi «Sala Itala-Iris» e «Regina Elena» si proiettavano film patriottici della Cines e della Milano. Al Teatro Stabile, invaso dai fiori, dalle bandiere tricolori, dalle luci, i convittori del «Convitto Nazionale» nei palchi, al centro il prefetto, altri palchi occupati da burocrati e da ufficiali, altri da soldati feriti e convalescenti ai quali le signore offrono sigari, paste e marsala, si rappresentano «Romanticismo», di Rovetta, «Silvio Pellico» di Gualtieri, «Sulle rive dell’Isonzo» di D’Arborio, «Goffredo Mameli» di Lucio D’Ambra e «Tutto per la patria» di De Lilli.

Centinaia di prigionieri austriaci, con decine di ufficiali, passavano in colonna, fra i soldati del 15° fanteria che li accompagnavano. Tra visite e preliminari forme igieniche, venivano trasferiti alla Caserma San Luca, probabilmente per poi destinarli alle carceri.

Il 20 gennaio 1918 il sindaco Marino inviava il saluto al generale Armando Diaz, comandante supremo, i più fervidi auguri per la battaglia del Piave e per la Vittoria finale. Alla stregua dei militari la burocrazia era al centro delle pubbliche attenzioni: il nome del nuovo prefetto era già nell’albo d’oro degli ospiti illustri della Prefettura.

È cosi che mentre fervevano le iniziative patriottiche e si svolgevano le cerimonie per la benedizione della bandiera offerta dalle signore al 6° Battaglione d’assalto (arditi fiamme nere), infierivano in tutta la regione, la disoccupazione, la protesta anarcoide e qualunquista, i disordini, la miseria, la corruzione e il clientelismo, che segneranno tristemente gli anni immediatamente successivi, fino all’avvento del Fascismo.

In questa animosità e in tale clima, in giorni e notti dominati dalla opprimente visione dei cavalieri dell’apocalisse che non galoppano mai a distanza tra loro, ecco la fame e la epidemia. Un funesto e plumbeo condizionamento, una atmosfera greve di mestizia e di paura, incombe sulle famiglie e sulla città; la notizia della “morte spagnola” entra nelle case e corre per via Pretoria e per i vicoli di Potenza, per i sottani e per le strade. Non si tratta di un biblico incontro con il “settimo sigillo” nei fetori e nelle foschie delle epidemie medioevali, ma si tratta della prima epidemia di tipo moderno, la influenza.

La spagnola si affaccia nelle nostre contrade nell’agosto del 1918 e si insedia nei mesi di ottobre, novembre, dicembre fino al 1919, lasciando secondo quanto asserito da Luigi Luccioni, autore di un volume fresco di stampa sul tema  (L’epidemia «Spagnola» in Basilicata , Calice  Editori), più di 5000 morti in una popolazione regionale di 468.537 anime.

L’autore cita nella sua pregevole trattazione altre influenze a diffusione pandemica come la “asiatica” del 1957 e la “Hong Kong” del 1968 e ne distingue le caratteristiche rispetto alla epidemia del 1918-19 e della quale parla con competenza e diffusamente.

Nella città i primi casi mortali si verificarono negli ambienti militari, presso la Caserma Basilicata ove era alloggiato tutto il 29° Reggimento di fanteria. Nell’esercito infierì maggiormente la epidemia ed i morti superarono di gran lunga quelli della guerra.. Non a caso qualche importante esoterico fa iniziare la fine del mondo proprio da quegli anni.

La verità è che Potenza, proprio in quegli anni, aveva iniziato il suo processo di modernizzazione, e si avvaleva fin dai primi del novecento, di affermate attività sociali e commerciali come gli orfanotrofi, il diurno, l’ospedale, il supporto istituzionale di Prefettura e medico provinciale, qualche agenzia generale di assicurazioni ” per provvedere alle sorti della famiglia in caso di morte prematura “. Esistevano  magazzini di abbigliamento tessuti e biancheria come quello di Ianora, fornito addirittura del registratore di cassa, di macchine per cucire come la «66» della Singer, di abbigliamento e confezioni come quello di Vincenzo Caggiano, di gioiellerie ed oreficerie ( Cusano Nicola e  fratelli Graziadei), di negozi moderni come quelli di Pacilio Nicola ed Oronzo Ignomirelli, di cartolibrerie come quelle di Raffaello Marchesiello e Ricciuti, di banche come il Banco di Roma, la Banca di Lucania, di palazzi importanti, quali il Palazzo degli Uffici Governativi (costruito fin dal 1908). Erano inoltre in esercizio alberghi come il “Moderno”, l’Hotel Ristorante “Appennino”, il “Lombardo”, l’albergo ristorante “Coretti”, caffè come il “Caffè Pergola”, il “Caffè Italia”, il “Caffè Larocca”, il “Bar Fiaschetteria Dragone”, la fabbrica di gassose, liquori e pasticceria “Antonio Balzano e figlio”, la pasticceria di Angelo Viggiani, e tanti altri locali e punti di aggregazione sociale.

La sottocittà era quella del basso popolo, delle taverne senza riposo, delle fioche lampade e dei radi falò che mandavano il semibagliore a rischiarare la ” corte dei miracoli” delle strettoie buie di accesso alle cantine, angusti porticcioli di montagna, nei sottofondi delle strade e dei vicoli.

Probabilmente in quei giorni nascevano noti personaggi come “Miseria” e “Saraché”, e “Mancusiedd” poteva avere anche due anni, ed altri …

“Trimniedd”, cantina accorsatissima di vico Addone, in quei giorni potè anche operare da guaritore, oste salgariano dai sapori acuti e forti, dai lunghi sorsi solenni di vino rosso e malvasia (malva ti sia), dalle mille e una notte del baccalà potentino, dai cavatiedd e legumi, del peperoncino e dei peperoni cruschi , delle lagane e ceci …

Questa fu una buona parte della disperata farmacopea per i blasfemi, i trainieri e i mulattieri, nelle cantine disseminate dentro i tortuosi meandri di muri e vicoli assieme al rito della ” saraca” con cipolle, delle uova fritte e dell’aglio.

Il mondo sottoproletario e contadino era tutto qui, abitava assieme agli animali, negli anditi, nelle grotte, tra scale e sottani.

Ma la città annoverava anche molti borghesi con lo stemma sui portoni, impiegati e barbieri, quelli dei saloni gelidi nelle forbici e nelle mani che manipolavano con  uguale disinvoltura pennelli da barba e sanguisughe.

È d’obbligo conoscere anche i farmaci usati e ricordare i distributori di rimedi, i farmacisti ed i droghieri dell’epoca: Amedeo Renza, Alfredo Diamante, Agostino Telesca. Ci fu chi durante l’epidemia ricorse all’aspirina, farmaco da poco in circolazione, alla Aspirolina Erba, meno affidabile, chi usava la polvere di Dower e chi si rifaceva al chinino di Stato (scarsamente reperibile in quel periodo, per il gran consumo fatto dagli eserciti belligeranti e la conseguente ridotta importazione), chi ricorse agli espettoranti, ai balsami, ai disinfettanti, alle sudorazioni, ai bagni caldo – freddi, alla canfora, alla morfina, ai clisteri, ai salassi …

In mancanza d’altro certamente si ricorreva largamente all’Amaro Lucano, prodotto da Pasquale Vena e F. da Pisticci o ai liquori della nota distilleria Artemio Laraia da Laurenzana.

Anche se non c’era molto tempo per scolpire le lapidi sulle tombe, il marmista di Potenza Pietro Basentini, coadiuvato  dai suoi figli, era lì a via Santacroce nr. 8, per eseguire stele e sculture di ornato e bassorilievo molte delle quali sono ancora visibili nel cimitero di Potenza a ricordo di “immatura morte per terribile morbo”.

Non c’era la serenità e la calma per organizzare solenni funerali, ma certamente i fratelli Racana Giuseppe e Raffaele, imprese di pompe funebri e fabbricanti di casse mortuarie, esercenti al corso Vittorio Emanuele ai nr. 55,57,59, non fecero mancare con la pietà dei familiari e degli amici ai poveri morti corone mortuarie e candele.

Dai paesi della periferia venivano notizie allarmanti di panico e di untori. La psicosi nei paesi fu così diffusa da non tollerare neppure il lugubre suono delle campane e da alimentare il rifiuto, da parte  degli addetti, di trasportare i morti al cimitero. Con tale marasma, ed in tale tragica situazione, Luccioni non trascura di dedicare agli operatori sanitari che più si adoperarono per affrontare l’emergenza un doveroso riconoscimento, sottolineando l’ammirevole abnegazione e la mobilitazione del valoroso medico provinciale dott. cav. Giovanni Pica, e di tutti i medici in servizio nel territorio della regione.

Tra le truppe di stanza a Potenza, le prime ad essere colpite, insigne fu l’opera degli ufficiali medici Morlino, Bellezza, Petruccelli e Giuseppe Gilio.

Pregevole ed utile il libro “La epidemia «Spagnola» in Basilicata, anche stimolante per chi voglia operare uno spiraglio nel fitto e penoso periodo di quegli anni.