A COSA SERVE IL PROPORZIONALE

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Marco Di Geronimo

Una manica di deficienti, prodotti in gran quantità dalla defunta Seconda Repubblica, sostiene e sosterrà che il peggiore dei sistemi elettorali di tutti i tempi è il proporzionale puro.

Bisogna prevedere ampi correttivi al proporzionale, sostengono questi eroi degli algoritmi elettorali. La mancanza di una soglia di sbarramento incentiva la frammentazione. L’assenza di un premio di maggioranza impedisce di assegnare la vittoria a uno schieramento all’indomani delle elezioni. Tutto ciò potrebbe esporci a terribili paludi, al cui interno probabilmente si nasconde il mostro di Lochness che altro non aspetta se non sbranarci a colpi di ingovernabilità.

Costoro, autentici geni della logica razionalista, ignorano che da quando l’Italia ha scelleratamente abbandonato il sistema proporzionale la bulimia di liste, simboli e partiti è semplicemente esplosa al di là di ogni carattere patologico.

Nella Seconda Repubblica – questo va ammesso – i Governi sono sono stati tendenzialmente più lunghi e omogenei. Anche al prezzo di legislature più corte (le due più corte della storia: XII 1994/96, XV 2006/08). A tali meravigliosi risultati va abbinato un crollo della partecipazione, ormai poco superiore ai due terzi dell’elettorato, in un Paese storicamente tra i più virtuosi d’Europa in cabina elettorale.

Gran parte di questo capolavoro autolesionista della nostra democrazia parlamentare è da imputare alla logica maggioritaria imposta agli appuntamenti elettorali. Dalle urne devono uscire un vincitore e uno sconfitto, con ruoli chiari e fissi: il primo impone le sue idee, il secondo le contesta.

L’importante diviene vincere: non ci sono più linee interne da bilanciare per trovare un indirizzo politico comune. Questa è anche la logica delle coalizioni: i piccoli partiti sono considerati in quanto accettano la subalternità ai superiori, ai quali portano importanti voti per la competizione, e in virtù dei loro pacchetti di voti avranno considerazione. Il piccolo partito che si slancia all’avventura, deviando voti dai pachidermi predestinati a vincere, è penalizzato con soglie di sbarramento più alte. A nessuno importa dar voce alle minoranze politiche. Esse esistono in quanto appartenenti a un padrone.

L’importante è assicurare la vittoria. Inventare sistemi elettorali è diventato un gioco alchemico in cui ci si sbizzarrisce alla ricerca della deformazione maggioritaria più alta. In altri termini: qual è il trucco migliore per regalare più seggi possibili al primo arrivato? Come osservava un costituzionalista cui andrebbe ritirata la laurea all’indomani delle elezioni inglesi, nemmeno l’uninominale secco garantisce una maggioranza al vincitore. L’unico sistema che garantisce la maggioranza è l’Italicum. Semplicemente perché la regala, al di là dei voti del vincitore. I premi di maggioranza altro non sono che colossali privatizzazioni dei Parlamenti, regalie ingiustificate alle minoranze meno minoranze delle altre.

E la governabilità? E la stabilità? Ma scusate, che interrogativi idioti. La democrazia è forse un concorso a premi? Una guerra tra bande? Allora forse non ha alcun senso tutelare la globalità delle libertà civili, se si ritiene che solo la libertà di voto conti per assicurare la democrazia. Di più: se solo la libertà di scegliere un dittatore provvisorio sia democrazia. Se l’importante è “siamo più noi”, non c’è bisogno che ciascuno esprima la propria opinione. Se la politica è contare soldatini e carrarmatini, e non convincere teste pensanti, che senso ha la libertà generalizzata di pensiero o di parola? Non c’è bisogno di garantire a ciascuno questa libertà, se tanto basta assicurare a ciascuno la scelta (bloccata) tra opzioni predefinite.

Democrazia invece significa mediare e parlare, quindi bilanciare le idee diverse in un unico flusso politico, in un indirizzo che sia davvero espressione della maggioranza del Paese, deliberato grazie al genuino apporto di ciascuno (o perlomeno della vera maggioranza). La democrazia è sintesi di idee diverse, che devono pesare per il reale consenso che hanno. Consenso elettorale che si costruisce attraverso radicamento territoriale, dibattito politico, abilità amministrativa e negoziale.

Questo sistema era in vigore durante la Prima Repubblica e ha permesso a una gamma di otto o nove partiti di sopravvivere coerentemente e con sostegno di tutti per mezzo secolo buono. Adesso, dove l’unica cosa che conta è l’alleanza tattica di breve termine, la vita media di un partito si misura in pochi anni (il PD ne ha 10…). E che i partiti abbiano vita lunga è spia di buona salute del sistema. Perché significa che esistono corpi pensanti nella società, che rappresentano il pensiero reale dei loro iscritti (ampia parte degli elettori più attivi).

È governabile un sistema in cui le parti politiche sappiano interloquire tra loro e individuare compromessi al rialzo, è stabile un Governo che mantenga il sostegno parlamentare e popolare nell’arco della legislatura. I sistemi maggioritari sembrano invece prendere atto che l’Italia non è e non sarà un Paese governabile e stabile e perciò provano a costringerlo tale imprimendo al tutto la logica della lottizzazione. Cioè: l’unico sistema per farvi stare zitti è regalarvi poltrone e mettervi contro un nemico che può farvi le scarpe. Così state buoni.

Un sistema del genere alimenta il malgoverno, la degenerazione della politica, e la terribile corsa al centro che impedisce alle parti politiche sane di presidiare i propri elettorati. Insomma: un sistema del genere (un proporzionale deformato, più che un maggioritario) svuota i partiti di credibilità. Svuota i partiti di senso, li trasforma in eserciti che si combattono e non vogliono (non hanno interesse a) dialogare.

Si contestano critiche simili al proporzionale, puro o quasi puro. Ma così non è. Ogni idea nel proporzionale conta per quanto conta davvero, quindi ogni voto effettivamente ha significato. Votare per l’uno o per l’altro sposta davvero (per quanto poco) gli equilibri. Mentre chi vota nei sistemi deformati non ha la certezza di aver buttato il voto. Il mio partito passerà lo sbarramento? Gli altri partiti otterranno il premio, danneggiando il mio?

Il proporzionale di conseguenza fa sentire parte del sistema. Solidificando i partiti nel tempo, incentiva la partecipazione: si entra a far parte dei partiti perché si contribuisce a una discussione interna che orienta il comportamento politico di tutte le compagini in tutte le assemblee. Questo perché le discussioni interne contano qualcosa, mentre nei sistemi deformati l’unica cosa che conta è il posizionamento politico. L’idea è derubricata a un brand, non a una appartenenza e a una filosofia politica (cfr. Renzi che entra nel PSE). Il dibattito interno quindi non ha più senso: chi se ne importa di come la pensi, sei capace di vincere? (Con questi dirigenti non vinceremo mai, cit.).

Altri aggiungono: se non si inventa una maggioranza quando non c’è, si rischia appunto di non averne una. E non è forse un caso piuttosto grave?

Sinceramente, faccio osservare un dato. L’attuale Governo – al di là del male che si può pensare incarni – aveva un sostegno elettorale del 50% al 4 marzo ed è stato il frutto di un faticoso e vago compromesso (il contratto di governo), che però ha fissato un indirizzo politico chiaro. Al momento il Governo in carica ha un sostegno elettorale del 60%. Per la prima volta da quasi dieci anni (e il caso delle europee 2009 è stato un caso isolato nella Seconda Repubblica), il Governo in carica ha più voti che parlamentari e ha incrementato i propri consensi. Inoltre è il primo caso nella Storia di una maggioranza parlamentare solida formata da soli due partiti.

In tutti gli altri casi, i Governi in carica hanno sempre accusato, anche nei casi di massimo splendore, un deficit elettorale. Avevano cioè più parlamentari che voti: erano sovrarappresentati. E i loro consensi sono sempre diminuiti, perché frutto di compromessi al ribasso che hanno scontentato l’elettorato. Inoltre la logica maggioritaria ha spezzato i partitini in mille rivoli, creando maggioranze complicate, frammentate e instabili (molto di più che nella Prima Repubblica, dove si contano soltanto tre formule di Governo in oltre 50 anni di storia).

Non bisogna aver paura dei casi in cui manca la maggioranza. Si tratta di casi nei quali il Paese non concorda univocamente sull’indirizzo politico generale. Questo indirizzo andrà dunque costruito in Parlamento. Che non esiste a caso: se il Parlamento fosse il posto in cui la “maggioranza” (minoranza più grossa) impone la sua voce agli altri, potremmo risparmiarci di eleggerlo e limitarci a eleggere un Governo. Il Parlamento invece serve proprio a mediare tra partiti (e singoli parlamentari) nel tentativo di trovare una strada comune.

La litigiosità intrinseca dello schieramento italiano deriva da tradizioni da sradicare. La casella della premiership è internamente troppo debole nel Governo e troppo forte (o meglio, è il Governo a essere troppo forte) nel Parlamento. Questo ha permesso di non inaugurare mai, a differenza del resto d’Europa, la prassi che il capo del primo partito faccia il premier. Renzi ci è riuscito? D’accordo, ma con alleati (e avversari) pagliacci e insignificanti. Di Maio – che altrove sarebbe Primo ministro – ha dovuto cedere il passo a quella macchietta di Conte. E il fatto che la casella della premiership divenga trattabile espone i governi a continue crisi (mancando anche l’istituto del rimpasto).

La nomina partitica dei parlamentari acuisce la crisi della democrazia italiana. Ogni parlamentare un tempo veniva eletto in virtù del proprio peso elettorale. Peso che o costruiva lui in prima persona o riusciva a trarre accordandosi con altri surfisti dei flussi elettorali. In entrambi i casi il pacchetto di preferenze era frutto di una linea politica: che convinceva gli elettori, o che convinceva i capicorrente. Sorgente di corruzione? Verissimo. Ma credere che la qualità dei parlamentari sia aumentata da quando non devono più guadagnarsi l’elezione equivale a credere nelle fate.

Giusti correttivi si possono applicare al proporzionale. Circoscrizioni medio piccole. Metodo del divisore anziché metodo del quoziente. Preferenza di genere, e/o trasferibile. Ma non si può trasformare (con coalizioni elettorali pronte al disuso, soglie di sbarramento variabile e premi faraonici) qualcosa di così importante come le elezioni in un talent show con eliminatorie e ripescaggi.

A meno che non si voglia trasformare la democrazia in una pagliacciata.

Lo si può anche fare. Ma che lo si dica.

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Sull' Autore

Direi di scrivere soltanto questo: "Potentino, classe 1997. Mi sono laureato in giurisprudenza a Pisa".

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