Si è svolto nella mattinata di Giovedì 10 febbraio u.s. il convegno potentino di presentazione del volume di poesie e fotografie di Prospero e Valerio Cascini: Lucanità Saracena, edito da Monetti. L’evento, organizzato dal Garante per l’Infanzia, Vincenzo Giugliano, ha visto la partecipazione di autorità scolastiche e istituzionali fra le quali il presidente del consiglio regionale di Basilicata, Carmine Cicala. La relazione introduttiva è stata tenuta dallo scrittore e giornalista, Gianfranco Blasi. Di seguito pubblichiamo l’intervento, una vera e propria recensione all’opera, di Giovanni Robertella, Presidente dell’Associazione Presenza Etica.
Recensione di Giovanni Robertella
Non è mai cosa semplice interpretare il pensiero degli altri, soprattutto quando bisogna trasformare la parola scritta in immagini mentali e concetti astratti in azioni concrete. Ancora più complicato è tradurre sensazioni, impressioni, emozioni, sentimenti, affetti, legami familiari e relazioni sociali. La poesia implica queste difficoltà, ma nello stesso tempo crea il mondo sociale e struttura la civiltà umana. “Forse è per questo – scrive Bruner – che i tiranni sono soliti nutrire timore e odio verso poeti, romanzieri e storici, più di quanto non ne nutrano verso gli scienziati: anche questi creano dei mondi possibili, ma nelle loro creazioni non lasciano spazio di sorta a possibili prospettive alternative su quei mondi”. Lo aveva già detto Platone: “I poeti sono pericolosi per la morale pubblica”. Non è il caso dei nostri due autori. Prospero e Valerio Cascini, con quest’ultima pubblicazione, hanno avuto la capacità di accendere nel lettore una curiosità che nasce dal primo contatto fisico col testoe dall’armonia tra ritmo, musicalità della parola e successione dei versi. Per non parlare delle metafore e delle implicature necessarie per comprendere i significati.
Prendendo il libro tra le mani e sfogliandolo velocemente si avverte subito la sensazione di trovarsi con un progetto grafico editoriale che mentre dà piacevolezza allo sguardo e al tatto, nello stesso tempo mantiene la sua sobrietà nei confronti del contenuto. Nessuna attività di marketing e nessun effetto scenografico, dunque, ma solo necessità di offrire al lettore modalità appropriate per rapportarsi con il testo. Le fotografie inserite nel libro sono una parte indispensabile della struttura testuale. Se le osservi in profondità sembrano parlarti e l’immaginazione porta a rivivere quei momenti della vita di cui ne avevi dimenticato l’esistenza. Ricordarsi bambini, rivivere i luoghi della spensieratezza, immergersi nei paesaggi e farsi attraversare dalle sensazioni forti di un tempo, riscoprire le carezze della madre, prendere confidenza col nuovo sono tutte situazioni che riemergono e ti parlano ancora, con un linguaggio diverso e più toccante. Bene hanno fatto l’editore e gli autori a corredare il testo con queste immagini che non appartengono solo a Castelsaraceno, ma fanno parte di un più ampio contesto nel quale ognuno di noi può ripercorrere i propri vissuti. La propria lucanità. È come se le poesie trovassero forma e corporeità proprio nelle immagini fotografiche. Le poesie e le fotografie dialogano tra di loro in modo penetrante e rendono il contenuto adatto non solo a un pubblico evoluto e attento, ma anche a quanti non hanno particolare dimestichezza con il testo poetico. È un’indagine a tutto campo della relazione tra persone e contesto e ancor più del legame tra la rappresentazione delle esperienze vissute e la loro interpretazione. Di questi tempi la poesia non gode di buona fortuna perché la dimensione economico-utilitaristica è poco evidente in essa. L’aspetto prosaico e paradigmatico è prevalente su quello poetico, creativo e narrativo. Vengono privilegiati gli elementi materiali ed economici a scapito di quelli immateriali e culturali. Tradizioni, consuetudini sociali, eventi rituali e festivi non rappresentano più l’identikit di una comunità. Sono ben altri gli interessi che imprigionano le culture umane. Eppure “La poesia, che fa parte della letteratura pur essendo più della letteratura, ci introduce alla dimensione poetica dell’esistenza umana. Ci rivela che abitiamo la Terra non solo prosaicamente –sottomessi all’utilità e alla funzionalità – ma anche poeticamente, votati all’ammirazione, all’amore e all’estasi. Essa ci fa comunicare, attraverso il potere del linguaggio, con il mistero che è al di là del dicibile”. Queste considerazioni ci aiutano a capire la differenza tra le due prospettive. Le scienze empiriche si preoccupano di scoprire il vero e descriverlo, il pensiero narrativo, invece, è il regno della verosimiglianza e dunque del possibile. Se della poesia comprendiamo gli effetti, molto più complicato è cercare di darne una definizione. La poesia è come il tempo in Sant’Agostino: “Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so”. È dentro questo quadro di riferimento che si sviluppa il valore conoscitivo della poesia, così come lo esprimono i due Cascini. I due autori fanno scelte diverse, ma complementari. Valerio opta per alcuni frammenti di realtà e per i ricordi legati alle esperienze di vita. Gli piace far parlare le cose e lo fa in lingua popolare: il dialetto, senza il quale, probabilmente, perderebbero di efficacia. Parlano la matita, le lucciole, la luna, il pino loricato e tutti gli oggetti che hanno lasciato segni indelebili nella vita dell’autore. E parla il tempo che penetra nelle case abbandonate alle ragnatele e al muschio che scende dalle grondaie coprendo il muro. È il mondo della semplicità, dell’ingenuità e della frugalità. Nel descrivere i vari momenti, che ricorda ancora con una certa enfasi, si serve del dialetto castellano certamente per rivendicare le sue origini, per richiamare alla mente il legame mai interrotto con il paese natio e per evidenziare la sua lucanità radicata nella roccaforte saracena. “… L’uso del dialetto non ha assolutamente una funzione nostalgica o naturalistica ma ha una dimensione colta, di artificializzazione del linguaggio, contro la parola usurata e impoverita della quotidianità e della chiacchiera di stampo televisivo”. È la sua una restanza virtuale che si intreccia con le sporadiche tornanze reali e con i ricordi dell’infanzia e preadolescenziali. L’incipit del libro inizia in modo molto originale, con un messaggio alla figlia sposa, alla quale non augura ricchezze, felicità e tutto quanto fa parte del repertorio augurale, ma, molto più sottilmente, le augura il dono del tempo-insieme. L’enigmatico, problematico tempo. La più grande ricchezza che un genitore può augurare a una figlia che si sposa. Prospero Antonio continua soffermando la sua attenzione sui legami familiari (il padre, la madre, la moglie, le figlie, la nipotina, soprattutto), sul paese, sugli amici (il compagno di scuola). È il suo modo di esprimere l’attaccamento alle radici da cui non si è mai staccato, neppure quando lo sconforto di alcune esperienze lo hanno profondamente segnato. Prospero è il poeta della restanza reale perché crede nella possibilità di contribuire ad esprimere una visione, a produrre senso nella sua realtà e a recuperare quei valori tradizionali che danno alla vita il piacere di essere vissuta. E chiede a Micaela Maria di continuare questo percorso con l’élan vital di Bergson, sebbene nata in un periodo inospitale. Viviamo, d’altronde, nell’”epoca delle passioni tristi”, della solitudine, delle sofferenze psichiche, della crisi sanitaria, della diffidenza nei confronti del futuro, delle incertezze, della crisi dell’autorità, del disagio sociale, dell’efficientismo, dell’accelerazione del tempo, dell’emergenza, dell’individualismo e il nonno le chiede, pur essendo preoccupato per la nipotina, di conservare il sorriso, la gioia per la vita e di dare la mano, la sua mano, al cammino verso una nuova umanità. Ed è proprio qui il passaggio dalle passioni tristi alle passioni gioiose nelle quali trovano posto il piacere del dono, dell’ascolto, della gioia, dell’accoglienza, del rispetto e del noi, per usare le parole dell’autore. È la visione fiduciosa nella vita, caratteristica indiscutibile dell’autore. Si apre e si chiude così il suo atto pedagogico. La logica cartesiana del “penso dunque sono” lascia il posto al “sento dunque sono”. Ed è in questo sentirsi che gli autori superano la prosaicità dell’esistenza per immergersi nella poeticità della vita. “La polarità prosaica della vita comanda tutto ciò che facciamo per obbligo, per sopravvivere, per guadagnarci da vivere. Poi c’è la polarità poetica della vita, cioè quella in cui ci si sviluppa personalmente, in cui si vive in comunione, in cui si hanno momenti di armonia e di gioia. Momenti che danno l’amore, l’amicizia, la letizia. È questo che è vivere, vivere poeticamente; mentre la parte prosaica della vita ci permette solo di sopravvivere. Mangiare per nutrirsi potrebbe essere solo prosaico, ma la qualità degli alimenti, il modo in cui sono cucinati, la commensalità danno piaceri che poetizzano i pasti. Tutto ciò che ci procura un sentimento di bellezza o di qualità contribuisce alla qualità poetica della vita”. Ecco perché mi permetto di suggerire ai più giovani: “Volgete lo sguardo oltre la siepe. Vivete poeticamente”.