Pubblichiamo questa importante analisi di Gianfranco Blasi sulla situazione mondiale nella consapevolezza che mai come ora la globalizzazione, con i suoi effetti imprevisti, è un tema che tocca tutti da vicino e tale da meritare qualche minuto in più di lettura

Gianfranco Blasi
La campagna elettorale, ho iniziato a scrivere questa lunga riflessione il giovedì prima del voto del 25 settembre, ci ha offuscato le menti, diviso fra Guelfi e Ghibellini, conducendoci su posizioni radicali spesso poco obiettive.
Eppure vorrei spiegare, nonostante le difficoltà a capirci, perché, secondo me, Giulio Tremonti ha ragione nel criticare così aspramente la globalizzazione, cosa che gli ho visto e sentito fare già all’inizio del secolo. Conosco l’uomo e il personaggio. Ho lavorato e collaborato con lui in parlamento, credetemi non è fazioso, vanitoso sì, convinto delle sue idee sì, ma le analisi che produce sono frutto di studio, esegesi socio economica, visione del mondo sia sotto l’aspetto filosofico che geo politico, Ma andiamo per ordine.
Come bene ha scritto il diplomatico italiano, Mike Giffuni, attento osservatore di politica internazionale e strategica, “dopo la fine della guerra fredda, nel triennio 1989-1991, abbiamo avuto una pace costruttiva, “cocente”, ma è durata appena un decennio, gli anni 90’ del secolo scorso; poi è divenuta tiepida e oggi siamo nuovamente in una guerra fredda”, anzi freddissima, a giudicare anche dalle ultime decisioni e dichiarazioni di Vladimir Putin circa i referendum nelle Repubbliche ucraine occupate, la mobilitazione parziale e le allusioni verso un uso dell’arma nucleare.”
I pilastri del cosiddetto “ordine mondiale basato sulle regole” – neoliberalismo, economia pura di mercato, finanza scarsamente regolamentata, e globalizzazione – sono tutti oggetto di discussione. Non solo da parte di chi li ha sempre avversati, come Giulio Tremonti, ma anche in ambienti più progressisti del così detto riformismo democratico. Il dato fondamentale è che, all’alba del ventunesimo secolo, la storia e la natura hanno iniziato a reclamare in omeostasi dinamica le loro prerogative nei confronti di un’umanità troppo fiduciosa circa un futuro radioso contraddistinto da un inesorabile progresso.
L’11 settembre e le lunghe e contraddittorie guerre americane in Iraq e Afghanistan hanno offuscato il primato politico degli Stati Uniti e la loro relativa, antica e incontrastata superiorità militare. La cosiddetta Pax Americana è ormai, dobbiamo confessarcelo, in crisi da circa un ventennio.
La crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ha sollevato forti dubbi sulla cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia”. Speculazioni e deregulation, accompagnate da un’incontrollabile bramosia, hanno prodotto disastri economici, severissime misure di austerità e generato massicce diseguaglianze. Non solo le fasce più povere della popolazione, ma anche le classi medie ne sono risultate in larga parte colpite e indebolite.
Dottrine economiche che negli ultimi quattro decenni sono state giudicate indiscutibili, come il monetarismo, sono finite sotto attacco. Nessun esperto o accademico della materia avrebbe potuto prevedere per esempio una stampa così massiccia di denaro. Anche la cieca fiducia nel ruolo equilibratore del mercato – la cosiddetta “mano invisibile” – sta venendo meno. Le crisi finanziarie e la pandemia hanno invece reso evidente la necessità di una “mano visibile”, quella dello Stato, che fino a qualche tempo fa era stata giudicata un anatema. Chi pensa liberale, come me, ha dovuto comprendere le ragioni di un lento avanzamento degli stati al fine di contenere povertà e diseguaglianze. La Cina ha iniziato progressivamente a risvegliarsi, e sta riassumendo quel ruolo di potenza economica dominante nella storia dell’umanità che aveva detenuto fino alla metà del diciannovesimo secolo, ovvero, secondo il punto di vista cinese, prima di venire a contatto con l’imperialismo ed il colonialismo occidentali. Il problema è che Pechino ha deciso di andare oltre, con l’ambizione di divenire anche una grande potenza tecnologica (5G, Intelligenza Artificiale, computazione quantistica, etc.) e, purtroppo, militare.
A Washington, comprensibilmente, sono iniziati a suonare una serie di campanelli di allarme. Gli Stati Uniti sono rimasti spiazzati dalla repentina ascesa cinese e non manifestano alcuna intenzione di condividere, nè con la Cina né con altri, la loro pluriennale egemonia mondiale. Per quanto riguarda la natura, dopo essere stata destabilizzata dall’attività umana – in primo luogo dall’industrializzazione occidentale – essa sta ora minacciando il pianeta con una crisi climatica in drammatica accelerazione. In Asia intere regioni sono in queste settimane sommerse dall’acqua. In Africa e non solo la siccità avanza verso Nord. Le bombe d’acqua in Italia non sono più un fenomeno casuale. Inoltre, le pandemie, come il Covid-19, stanno presentando nuove, irruenti, minacce per l’umanità.
La crisi energetica sta complicando, e non poco, la Green Revolution. Persino Elon Musk ha sostenuto che i combustibili fossili sono ancora necessari. Ridurre le emissioni globali è divenuto un obiettivo assai più complicato con l’economia mondiale diretta verso una probabile recessione. La rabbia per la situazione attuale e l’ansia per quella che ci riserverà il futuro – accompagnata dalla deprimente ed inedita prospettiva che le generazioni future potrebbero avere una vita peggiore di quelle attuali – sembrano essere i segni distintivi del nostro tempo. In circostanze così inquietanti, l’aspettativa minima, e di buon senso, è che le principali nazioni del mondo si rimbocchino le maniche e affrontino insieme questa vasta gamma di sfide.
Accade però che il sistema mondiale sia in ulteriore frantumazione. La miccia è stata l’invasione russa dell’Ucraina, ma le condizioni erano in atto ben prima dell’inizio guerra. In altre parole, mentre il presidente e despota russo, Vladimir Putin è (a ragione) il principale responsabile del momento che stiamo vivendo. Probabilmente, però, non è l’unico a destabilizzare gli equilibri che conoscevamo e su cui ci basavamo.
Contrariamente a quanto accaduto negli ultimi decenni, previsioni accurate sul futuro diventano quindi cruciali per meglio affrontare le molteplici sfide che si paventano.
Nonostante la spasmodica – e a tratti imbarazzante, almeno per quei paesi che non sono membri del Commonwealth – copertura mediatica, uno dei più importanti eventi degli ultimissimi tempi, non sono state le solenni esequie della Regina Elisabetta II, ma il Summit della Shangai Cooperation Organization (SCO) svoltosi a Samarcanda.
Per i meno informati la SCO è l’organizzazione a guida russo- cinese che sta determinando gli assetti dell’area geografica più importante del pianeta: l’Eurasia. Associa India, Pakistan e altri paesi dell’Asia Centrale ed Occidentale e rappresenta oltre tre miliardi di persone. Tra qualche anno, secondo le stime, anche il 40% del PIL mondiale. In sintesi, un attore rilevante quanto se non addirittura più del G7 e dell’UE.
Ebbene, l’attenzione occidentale dell’evento si è concentrata unicamente sulla spasmodica ricerca di tensioni e differenziazioni semantiche tra Cina e Russia nel contesto del conflitto in Ucraina, quando la vera notizia è stata rappresentata dal numero di Paesi in coda per aderire alla SCO. Ovvero: Arabia Saudita, Egitto, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Bahrein. In sintesi, tutto il Medio Oriente, e tutti paesi alleati o stretti partner degli Stati Uniti. Vorrà pur significare qualcosa? Non a caso i paesi produttori di petrolio, decidendo in queste ore la riduzione della produzione, stanno sviluppando politiche sul prezzo del petrolio più aderenti proprio alla SCO, non privilegiando gli antichi rapporti con Stati Uniti ed Europa.
Cosicché verificheremo nelle prossime settimane anche un aumento del prezzo del petrolio oltre a quello già deflagrato del gas.
Sicuramente Mosca e Pechino hanno opinioni diverse su molte questioni, inclusa l’Ucraina, ma il dado è ormai tratto. I due paesi sono sulla stessa barca, non possono tornare indietro; persino l’Economist lo ha riconosciuto nei giorni scorsi. La Cina si sta preparando per essere il più indipendente possibile su tecnologia, energia, cibo e finanza perché ha concluso che la linea punitiva che USA (e UE) hanno assunto contro la Russia a causa dell’invasione dell’Ucraina, verrà adottata anche contro Pechino. La lista delle rimostranze occidentali nei suoi confronti è altrettanto lunga: Taiwan, Hong Kong, il trattamento degli Uighuri nella provincia dello Xinjang, le ambizioni nel Mar Cinese meridionale e la presunta minaccia tecnologica.
Le settimane a venire saranno dense di occasioni per provare a tratteggiare il prossimo futuro. A metà ottobre, il XX Congresso del Partito Comunista Cinese dovrebbe conferire un inedito terzo mandato al Presidente Xi Jinping, spianando la possibilità di una sua nomina a vita, con tutte le implicazioni che tale scelta comporterebbe. Ai primi di novembre, le elezioni di medio termine statunitensi certificheranno gli assetti in seno al Congresso USA e, contestualmente, la possibilità effettiva del Presidente Biden di portare avanti la sua ambiziosa agenda interna ed internazionale. Le previsioni non sono buone per lui e per i democratici. Tant’è che Biden ha addirittura invitato gli americani a riflettere sulle conseguenze interne di un voto come quello italiano, a suo giudizio, troppo conservatore. Infine, a metà novembre, il G20 in Indonesia sarà un’occasione per verificare se tra Nord industrializzato a guida USA, e Global South sotto forte influenza Russo-Indo-Cinese, sarà possibile trovare un minimo comune denominatore per restituire uno straccio di governance condivisa a questo travagliato pianeta.
Peraltro, Biden, forse Putin (che probabilmente subirà in quella occasione un boicottaggio occidentale) e Xi si troveranno faccia a faccia.
La verifica in seno al G20 appare tanto più necessaria perché quella che per qualche decennio abbiamo chiamato globalizzazione si sta sgretolando. E torniamo al giudizio che ne ha dato e continua a dare Giulio Tremonti. La globalizzazione è stata alimentata per decenni dalla fornitura di gas russo a basso costo all’Europa che ha reso possibile a quest’ultima straordinarie performance in termini di export; e da un’esportazione massiccia di prodotti cinesi a basso costo verso gli Stati Uniti, che hanno sostenuto il sogno americano fondato su un consumismo sfrenato basato su un debito crescente e, secondo alcuni, difficilmente sostenibile nel tempo.
Il sistema girava inoltre sul dominio finanziario americano costruito sul dollaro come valuta di riserva per gli scambi globali e, per decenni, è stato anche agevolato da un’inflazione bassissima e su tassi di interesse pari a zero se non addirittura negativi.
Questa situazione ideale sta venendo meno ed è a dir poco incerto se potrà essere ripristinata. L’egemonia finanziaria degli Stati Uniti è sempre meno tollerata da alcuni Paesi, poiché il potere finanziario USA è stato in diversi casi usato in modo punitivo contro chiunque non si allineasse alle posizioni di Washington. Cina e Russia cercano valute di riserva e circuiti finanziari alternativi a quello statunitense.
Le principali parole d’ordine del momento sono de-coupling e re-shoring. Ovvero la disarticolazione delle attuali catene di approvvigionamento globale. L’UE ha deciso di affrancarsi dalla dipendenza energetica dalla Russia, ed è incerto se potrà sostituirla compiutamente. Se vi riuscirà, sarà sicuramente a condizioni più costose e, quindi, la competitività delle imprese europee sui mercati ne risulterà danneggiata. Gli Stati Uniti, almeno dal punto di vista dei decisori politici, vogliono affrancarsi dalle catene di approvvigionamento cinesi e dai flussi finanziari di Pechino.
Nelle ultime ore la Germania sembra orientata a fare scelte nazionali non concordate con la UE. Investirà 200 miliardi del proprio Bilancio statale da allocare a sostegno della propria bolletta energetica. La stessa Francia ha gia deciso di non condividere più una quota della sua produzione di energia. L’Europa sembra
perdere di coesione nel momento più delicato della vita delle sue imprese e famiglie. La Bce è impegnata a raffreddare l’inflazione e a ridurre la circolazione di moneta. Per intenderci un salvataggio alla Draghi non sarà possibile in questa fase. Ed è proprio l’Italia, con il suo carico di debito pubblico, a sembrare il paese euro mediterraneo messo peggio.
Mentre in Ucraina si sta svolgendo una guerra tradizionale, una di natura economica e globale si sta sviluppando tra Stati Uniti, UE e Russia, e presto vi si aggiungerà la Cina. Il Sud del mondo sta osservando preoccupato, sperando di rimanere ai margini, ma potrebbe comunque risultarne coinvolto economicamente. Gli Stati Uniti stanno valutando sanzioni secondarie contro quei paesi che non si sono ancora allineati alle sanzioni contro la Russia, e una situazione simile potrebbe verificarsi nel prossimo futuro anche per quanto riguarda la Cina.
L’inverno sta arrivando. L’Europa procede verso il razionamento energetico, mentre gli Stati Uniti hanno chiarito che non sono in condizioni di aiutarla con maggiori forniture energetiche di gas naturale liquefatto. Quaranta amministratori delegati delle principali industrie metallurgiche europee hanno indirizzato una lettera congiunta alle istituzioni dell’UE avvertendo che il loro settore affronta una minaccia esistenziale a causa degli alti costi energetici.
La Banca Mondiale, facendo l’eco alla Bce, ha appena pubblicato un rapporto in cui si afferma che “l’economia globale è nel bel mezzo di uno degli episodi più sincroni a livello internazionale di contemporaneo inasprimento della politica monetaria e fiscale degli ultimi cinque decenni”. Tra le sue conclusioni c’è quella che una recessione globale potrebbe essere imminente.
L’ordine mondiale, basato sulle regole democratiche e guidato dagli Stati Uniti è stato spesso criticato, ma anche difeso come un centro valoriale di libertà e diritti irrinunciabili per il mondo occidentale e se possibile da esportare.
Ecco, vengo ad un punto cruciale e ad una riflessione che apre a scenari inediti. Lo faccio in maniera lineare, quasi giornalistica, augurandomi che un dibattito su questi nodi si possa aprire a più fasi e in più direzioni.
La crisi che ci avvolge è anche dovuta all’emergere di modelli culturali e di potere diversi, come le autocrazie o gli stati guidati dai movimenti religiosi fondamentalisti, parlo in particolare di Cina, Russia, India, Medio Oriente e Sud del mondo. Si può certamente discutere su questi modelli, anzi si deve farlo, ma, è difficile rimuoverli completamente dall’agenda. Cioè non si può far finta che due terzi della popolazione mondiale non esistano. Il sistema globale potrebbe quindi evolversi lungo linee di civiltà o inciviltà – a seconda dei punti di vista, si pensi alla battaglia delle donne iraniane – dove la volontà occidentale di rappresentare il
miglior modello di governance planetaria potrebbe risultare difficile da applicare in un breve periodo.
Quella che appare necessaria, se pure assai complicata, è una ricalibrazione dell’ordine mondiale, tenendo conto delle diversità dei modelli di potere e delle specifiche culturali di ciascun attore internazionale, per lavorare ad un nuovo modello e per giungere ad una rivisitazione virtuosa della globalizzazione. Per esempio, più che la felicità individuale e l’esaudimento dei desideri e piaceri personali bisogna tornare qui
da noi nel mondo occidentale a visioni comunitarie del buon vivere che si moltiplichino in dimensioni regionali e continentali. Conta la qualità della vita di tutti e la difesa del mondo fisico nel quale viviamo.
Nelle condizioni attuali non sarà facile perseguire questi obiettivi ma non vi sono alternative, a meno che qualcuno, qualche pazzo, e Putin si avvicina a questo profilo, non ritenga una deflagrazione globale un’opzione più percorribile. Il passaggio da un ordine mondiale basato su regole date e a guida occidentale ad un ordine mondiale basato su valori diversi e su equilibri precari sempre da ricercare appare inevitabile. Putin non può imporre le sue idee con la forza, ma noi occidentali dobbiamo prendere atto che due terzi del mondo vivono e se possibile prosperano con modelli culturali, etici e politici diversi dai nostri.
E’ in questo contesto fragile che gli italiani sono stati chiamati al voto. Invece di discutere su questi temi che presentano implicazioni epocali, il dibattito elettorale, e la relativa copertura mediatica, si sono trasformate in un gigantesco referendum sulle capacità di governance di Giorgia Meloni. Su fascismo e comunismo. E si sta continuando su questa stupida strada. I media e molta politica non fanno altro che rappresentare uno show preconfezionato. Occorre tornare alle elezioni politiche del 1948 per trovare un’attenzione così marcata e polarizzata circa la collocazione e le scelte di politiche estera del nostro Paese. All’epoca si delineava la guerra fredda e, con essa, una vera e propria opzione di campo tra democrazia liberale e totalitarismo comunista. In quell’occasione, gli elettori italiani seppero votare per la democrazia e la libertà. Il pericolo comunista fu allontanato. Questa volontà democratica venne solennemente corroborata quattro decenni più tardi dal crollo del muro di Berlino.
Oggi non ci troviamo dinanzi a quello spartiacque. Chi lo invoca opera una mistificazione. Lo stesso Biden ha dovuto riconoscere nel suo recente discorso di Filadelfia che le minacce alle democrazie occidentali non sono ad intra ma ad extra. Sono nei modelli di potere russo e cinese e nella loro capacità anche di condizionare le politiche interne dei paesi occidentali.
Coloro che si affannano a presentare le scelte del 25 settembre 2022 in termini apocalittici, analoghi a quelle effettuate nel 1948, stanno operando un inganno. Asserire che è in discussione il collocamento internazionale del nostro Paese è una palese forzatura. Per fortuna, non esiste in Italia una massa critica
sufficiente per rimettere in discussione le scelte internazionali fondamentali effettuate qualche decennio addietro, ovvero NATO e UE.
Permane tuttavia un refrain mentale che identifica qualsiasi critica (anche costruttiva) indirizzata verso Bruxelles, sia nella sua articolazione NATO, che in quella UE, come una pericolosa forma di tradimento che metterebbe a rischio la democrazia nel nostro Paese. Si dovrebbe invece poter liberamente discutere se le nostre scelte e il nostro relativo collocamento internazionale debbano e possano essere meglio declinati con due finalità ben precise:
– la migliore tutela degli interessi nazionale del nostro Paese, ovvero dei suoi cittadini e della nostra economia;
– contribuire ad evitare una situazione internazionale che possa sfuggire ad ogni controllo e innescare un conflitto globale di proporzioni incalcolabili.
Naturalmente, è difficile discutere e ragionare, coinvolgendo anche l’opinione pubblica, sugli scenari internazionali. Negli ultimi anni, proprio lo scenario geo politico – è divenuto sempre più volatile,
incerto, complesso ed ambiguo. L’acronimo anglosassone in voga per sintetizzarlo è infatti VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambigous).
C’è la voce del Papa a ricondurre le ansie delle donne e degli uomini cristiani dentro il conflitto e dentro la complessità dei problemi che ne conseguono. Le sue parole caratterizzano l’urgenza del momento e, in qualche modo, semplificano i messaggi e vanno diritte al punto. Volatilità, incertezza, complessità, ambiguità, ma anche il cuore dell’uomo che sanguina, il male che si manifesta esplicito, e di contro il desiderio di rimarginare le piaghe e di percorrere vie di giustizia e bene comune. La tensione verso la pace non deve mai diminuire o passare in secondo piano rispetto alle visioni strategiche e geopolitiche. Tornando ai fatti contingenti, dobbiamo evidenziare come nelle competizioni elettorali, peraltro, tali difficoltà aumentano. Si tende ad iper semplificare, sfumature e complessità vengono rimosse. Occorrono messaggi semplici ed evocativi – che devono peraltro adattarsi ad un formato mediatico con tempi compressi – e che possano mobilitare l’elettorato, generalmente in due campi avversi.
Siamo e resteremo nell’era delle polarizzazioni. Anche qui grossolani processi di rappresentazione prevalgono sulla realtà. Si va per slogan in ottemperanza ai criteri tribali imposti da spin doctors e social networks. Si tende a schierarsi in campi contrapposti o perlomeno ad offrire la percezione che ci siano due
scelte di campo diverse da cui deriverà un futuro diverso per il nostro Paese. Ma questa è una rappresentazione, non è la realtà. Non si tratta di uscire dalla NATO e dall’UE, ma di trovare un modo
più intelligente di operare all’interno di tali consessi per tutelare meglio, come fanno i nostri partner senza alcun complesso, i nostri interessi e di contribuire affinché il processo decisionale a Bruxelles sia caratterizzato da maggior visione e lungimiranza. Se un giorno la Ue avrà una propria costituzione che integri i popoli in un’unica visione di stati uniti federati fra loro, con l’elezione di un presidente, di un parlamento, con un’unica politica fiscale, estera e di difesa oltre che con l’euro, a quel punto il futuro nostro e dei nostro partner si indirizzerà, canalizzandosi verso prospettive migliori delle attuali.
Ma se l’Europa resterà quella che è oggi, sarà necessario trovare dei punti di equilibrio fra gli interessi comuni e quelli dei singoli stati. Senza sovranismo, che significa potere al popolo, l’Europa è e resterà una macchina inceppata. Chiudo, facendo riferimento a quello che a mio giudizio, con Mario Draghi, è l’unico statista fra i presidenti europei: “L’Europa è un’idea realizzata attraverso i secoli da pionieri, da rivoluzionari. (…) Sta a noi farla rivivere, renderla più forte. La sola via che ci rimane è la rifondazione dell’Europa” . Così Emmanuel Macron a settembre dell’anno scorso, quando nella maestosa aula magna della Sorbona delineò il suo programma di “rifondazione” dell’Unione Europea. Sei le clés (chiavi) con cui aprire la nuova era comunitaria: sicurezza, difesa, politica estera, ambiente, nuove tecnologie e moneta unica. Di queste, le prime tre e l’ultima rappresentano i pilastri della visione di Macron. La loro mera elencazione espone il paradosso in cui si trova attualmente l’Unione: i singoli Stati membri, da soli, sono spesso troppo deboli per affrontare efficacemente le sfide poste dall’odierna realtà interna e internazionale nell’ambito della finanza, dell’economia, dell’ambiente, dell’immigrazione e della difesa.