Lucio Tufano: “Io, Tuccino e gli altri ” (1)
Ci s’incontrava già da ragazzini, nella villa di piazza “XVIII Agosto”. Eravamo amici sin da allora per quell’euforico incontro, nei pressi della fontana barocca, tra la vasca con i piccoli pesci colorati e il chioschetto di Zirpoli, in uno spazio delimitato da un recinto in tronchi di legno ordinari e con un pubblico improvvisato di bambini, serve e signore che si divertivano al nostro buffo teatro. Erano gli anni della guerra, ed avevamo un rapporto speciale con i soldati tedeschi che gestivano una radiotrasmittente mimetizzata dal fogliame degli alberi, così come scrive lo stesso Tuccino: «Io e Lucio eravamo forse i più comici, avevamo qualche numero collaudato perfino coi soldati tedeschi della villa comunale, appena l’anno prima, anzi l’estate precedente, quella di cui si sentivano ancora i languori dell’accattivante autunno. Con gli alleati avevamo inventato una pièce di straordinaria resa giocosa, i personaggi di Hitler e Mussolini»[1].
Più tardi, dopo averlo rincontrato insoddisfatto per gli esiti della scuola e dei professori per quella sua “farina non del suo sacco” (i suoi temi d’italiano non persuadevano), ed anche perché non veniva compreso per la sua vis comica, la sua vivacità, la fervida fantasia di giovane ribaldo, il suo sarcasmo, il suo carattere ribelle e provocatorio: un geniale Petrolini improvvisato senza accademia e senza grande ribalta.
Nei primi anni ’50 ci rivedemmo, entrambi studenti del Liceo “Q. O. Flacco”, ed intavolammo da allora discorsi letterari e prendemmo iniziative originali e culturali.
Bisognava prepararsi sull’intero programma dei tre anni, e qualcuno ancora, forse, vive in sogno l’incubo dell’esame di matematica o di greco. Quel vecchio ginnasio liceo è nei nostri ricordi, ma anche nella storia della città, da quando era Real Collegio e poi divenne Ginnasio. Liceo “Salvator Rosa”, e ancora intitolato a Luigi La Vista, ed a Q. O. Flacco. Un’epoca in cui il ginnasio-liceo fu l’unica risorsa culturale della città e della regione, recitando un ruolo importante come quello di un’università. Sin dal 1923 la Riforma Gentile esigeva che i passaggi dal ginnasio inferiore a quello superiore e da questo al Liceo e dal Liceo all’Università si compissero con il superamento di esami di Stato.
Si studiava molto e bastavano due o tre materie, sulle quali non si era ottenuta la sufficienza, per essere “rimandati” ad ottobre, o per essere bocciati. Cinque ore di lezioni al giorno, con solo mezz’ora di ricreazione. Rientrati in famiglia, occorreva prepararsi sulle materie del giorno dopo. Solo nelle ore di educazione fisica e di religione ci si svagava un po’ … Erano i gloriosi anni del Liceo Classico.
Eravamo quelli che portavano il grave fardello del dopoguerra, ai quali gli anni ’50 contribuirono a dare il senso della ricostruzione e della rinascita.
Il fascino di Afrodite, gli amori di Zeus e l’orrore delle Gorgone, le tre sorelle alate anguicrinite ed il greco e il latino, zoccolo duro della cultura, il cristianesimo che si rifà alla storia della filosofia con i presocratici, i sofisti, Platone, Aristotile, con la Scolastica e la Patristica e la concezione della psiche umana che trova i suoi modelli nella leggenda greca: Edipo, Elettra, le Baccanti, davano ragione ai nostri insegnanti di insistere sui classici, di crearci incontri interessanti con i grandi spiriti dell’antichità.
Ci affascinava quella continua, sterminata, ingannatrice crudeltà di dei e uomini, infedeli, stupratori, assassini che erano eroi e divinità, protagonisti del Mito, capricciosi ed inesorabili persecutori, le Erinni, le disavventure di Odisseo, quelle dei guerrieri indomiti Ettore ed Achille. Eppure inconsciamente, studiando le vicende, avevamo ben capito come anche quelle più o meno appartenessero al repertorio della favola antica. Ma se rileggiamo “All’amica risanata” e “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo”, “A Zante” ed “I Sepolcri”, ci accorgiamo che vi è tutto un tripudio di ègide e di Elicone, fra “scalpelli achei” e “candidi coturni”, facile bisso e ambrosia e nettare, Artemidi e archi cidonii, Arcadie e Parnasi …,
E così che il nostro viaggio, nel sogno iniziato al liceo, avrebbe dovuto continuare e non spegnersi, senza morire.
Ma in quegli anni ’50, nel chiuso delle aule dai banchi vecchi e corrosi, ove l’odore e la luce della incipiente estate ci distraeva dalle lezioni, e la presenza delle compagne più belle ci avvinceva, in quegli anni si completava la nostra formazione.
Il biondo Tramice, il saggio Franculli, il latinista Tramutoli, la professoressa Falciola, i professori Caricasole, Tomasillo, Mazzarella, Caruso, Calvello, il preside Lauria, che con le lenti sul naso ci veniva a leggere gli esiti degli scrutini commiserandoci per quelli più scarsi e tanti altri, come la Dora Naglia e la signora Abruzzese, la Capoluongo, la Nigro, il prof. Marinaro, don Errichetti e don Michele Rotunno hanno riempito le nostre impazienti aspettative di liberazione, inconsapevoli di quanto, ancora più difficile, ci aspettava, più gravoso del timore di venire chiamati a conferire. Il tutto meno spensierato e meno esilarante di un bacio finalmente strappato alla ritrosa compagna del primo banco.
In estate si ballava sull’onda di “Serenata celeste” e si canticchiava “Papaveri e papere”. Nella villa di “Santa Maria” gli universitari tenevano serate danzanti. Alla “pineta dancing” di Montereale, attorno alla pista da ballo e all’orchestrina, si servivano bibite, gelati e dessert, per l’intraprendenza di Toruccio Giuliani, e il nuovo prodotto locale, il “Chinotto Avena”, altamente dissetante e digestivo. A Rifreddo, l’EPT aveva creato un posto di servizio ristorante, buffet freddo e pasticceria per le domeniche e dove si arrivava con la “600” e con la “500”, giacché finalmente si poteva uscire dalla città. Oltre i nuovi palazzi dell’edilizia economica e popolare, la campagna ostentava le sue coltri di verde e di giallo. Si andava a pranzo fuori. Dallo spuntino in campagna, alla gita, al picnic con l’auto, al ristorante allo “Scuorzo”, o a Salerno per gustare le pietanze di mare.
