di GERARDO ACIERNO
1.
Ho “visto”
la guerra nei familiari racconti natalizi, tra volute di fumo del toscanello e il sordo tintinnare delle brocche piene di vino nuovo appena spillato. Fingevo distrazione mescolando nel sacchetto i numeri della tombola ma sottecchi leggevo negli occhi del padre e degli zii le paure, le miserie, le infinite sofferenze.
Ho “ascoltato”
la guerra nei lamenti cantilenati dalle nonne nelle gallerie del posto al riparo dalle bombe del settembre ’43 per distrarre i piccoli, incoraggiare i grandi.
Ho “sfiorato”
la guerra il giorno in cui mi consegnarono una medaglia alla memoria d’un mio familiare caduto sul fronte alpino nella Grande Guerra. Stringevo quella spalmata di metallo: non mi riscaldava.
Cerco di capire per cosa l’uomo guerreggia con l’altro uomo e sento sghignazzare alle mie spalle: “ingenuo sognatore, per il potere e nulla più!” Il filo del discorso s’ingarbuglia e non ho più né voglia né tempo per provare a sbrogliare la matassa. Tiro giù il catenaccio al portone e la tapparella al balcone. Fuori restano i dubbi, le domande, le assenze. E tutte le mie mancanze.
2.
Ancora pensieri (e lamenti) per questa terra di Lucania, Basilicata: friabile argilla, boschi leggendari, rivoli e mari divoratori, lune, calanchi, grotte misteriose, briganti, coltelli affilati, arpe, jeep, pozzi, trivelle e organetti, pane fresco, vino e luganega, chiusure, licenziamenti, partenze e migrazioni, freddo, vento (e lamenti) gagliardi, dominanti negli sguardi scostanti di gente in attesa da sempre. Questa terra, la mia terra, ferma ad aspettare un treno ignara se arriverà da Ponente o da Levante. Scivola nel frattempo il silenzio lungo i sentieri delle nostre speranze.
3.
Se un giorno queste parole alimenteranno un falò, vorrei fosse il falò della sera di Sant’Antonio, nella piazza del mio paese, posto dell’anima e del gelo. Faville come lucciole e nevischio assottigliato dalla tramontana vorrei tornassero a me compagni a immaginare il tempo dell’ultimo respiro di mia madre quando non mi fu concesso di poterla abbracciare prima del suo andare. Gelida era la sera, ardeva il falò, io non c’ero.
4.
Per gente di montagna come me cosa mai è stato il mare se non il sogno, il cielo che si bagna nel sole del tramonto? Cosa mai è stato il mare se non il canto di mitiche fanciulle, il baluginio delle lampare, il sapore di cibi sconosciuti, il profumo dei limoni, il viaggio verso l’ignoto? Oggi il mare non è più quel mare. Alla barca del migrante ha sottratto il vento giusto e nel suo fondo giacciono il campionario dei sentimenti, il diario delle vite, l’ultima pietà. Dal profondo del nostro cuore nessuna voce di sirena si leva.
5.
C’è del guano depositato sulla criniera scheggiata del leone di pietra. La pioggia non lo lava, il vento non lo spazza, la neve non lo ammanta né il felino è più il guardiano della notte: la movida stordisce, rintrona, ferisce. Nulla si sa dello scultore che un giorno gli regalò artigli, orgoglio e onore.
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