La chiesa antica della SS. Trinità di Venosa è stata integralmente restaurata rendendo leggibili le diverse fasi costruttive, dalla domus romana imperiale al complesso episcopale paleocristiano, all’impianto abbaziale benedettino risalente all’epoca normanna. Le ipotesi sulla sua fondazione appaiono ancora controverse. Per alcuni studiosi venne innalzata dai Benedettini, prima della venuta dei Normanni, su una Basilica Paleocristiana sorta tra il V ed il VI secolo. La basilica romanica venne consacrata da papa Niccolò II nel 1059. Nello stesso anno Roberto il Guiscardo volle rendere la chiesa il sacrario degli Altavilla e quindi fece portare, all’interno, le salme dei suoi fratelli Guglielmo “Braccio di Ferro”, Umfredo e Drogone. Successivamente anche lui, per volontà della moglie, verrà sepolto qui. Attualmente l’ingresso presenta un portico coperto in cui è incorporata una scala che conduce al piano superiore dove si apre una cappella romanica, coperta da una cupola, all’interno di un ambiente rettangolare. La parete su cui poggia ala scalinata, che costituiva la facciata dell’intero complesso, presentava tre archi comunicanti con l’atrio, due dei quali sono stati tompagnati, insieme ad un loggiato al primo piano, per costruirvi la scalinata appunto. Il portale d’ingresso, firmato dal maestro Palmerio e datato 1287, è di stile arabeggiante. Esso presenta una lunetta decorata con tre lastre mutili che presentano una serie di archi continui all’esterno del timpano e motivi e disegni islamici all’interno. L’edificio paleocristiano originario con impianto basilicale romano, costituito da un nartece con atrio antistante, tre navate, di cui la centrale più ampia, un transetto e un coro, è stato, in più fasi, rimaneggiato e ampliato. Una prima fase di lavori dovette svolgersi tra il 1046 e il 1051, periodo in cui il normanno Drogone d’Altavilla fu conte di Puglia, e una seconda fase dovette essere portata avanti dall’abate Ingelberto che, nella bolla del Papa Niccolò II del 1059, viene menzionato per aver iniziato il restauro. Inoltre, sotto Roberto il Guiscardo, successore di Drogone, sempre nel 1059, il Pontefice Niccolò II si recò a Venosa per consacrarne la SS. Trinità, trasformata da cattedrale in abbazia e assoggettata direttamente alla Santa Sede. Tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII si ha il prolungamento della navata centrale con la realizzazione di un nuovo pavimento con un tessellato policromo a motivi geometrici. Dopo che i lavori per la nuova chiesa -l’Incompiuta- che doveva sostituire la vecchia, furono definitivamente interrotti, la trasformazione e il restauro della SS. Trinità ripresero. Nel periodo svevo-angioino un nuovo pavimento in mattoni di cotto venne poggiato direttamente sul tessellato esistente e tre grandi arcate trasversali a sesto acuto furono inserite nella navata centrale insieme agli archi di controspinta delle navate laterali. La cripta venne ampliata per la larghezza dell’intera chiesa e coperta con volte poggianti su pilastri e le scale di accesso ad essa furono realizzate nuovamente. Dopo il 1297, quando l’Abbazia passò dai Benedettini ai Cavalieri Ospedalieri di San Giovanni in Gerusalemme, nuove trasformazioni interessarono il presbiterio, con la suddivisione del transetto mediante due archi a sesto acuto poggianti su quattro piedritti. Successivamente, tra il 1550 e gli inizi del 1600, furono costruite cappelle e altari nelle navatelle e venne data una nuova sistemazione alle tombe del Guiscardo e degli altri principi normanni. Alla fine del XVIII secolo fu impressa, alla chiesa, una forma barocca e ricostruito il presbiterio e, dopo il terremoto del 1851, vennero rinforzati i muri esterni della navata sinistra con contrafforti laterali. La chiesa si presenta, internamente, a tre navate divise da otto pilastri a destra, e da sei a sinistra, affrescati e reggenti archi a tutto sesto. La navata centrale, che nel suo punto più alto supera i dieci metri, si suddivide a sua volta in quattro campate, per la presenza di quattro grandi archi trasversali. Il transetto, la cui lunghezza equivale allo spazio intercorrente tra quattro pilastri della navata, è suddiviso da due archi poggianti su quattro piedritti. L’abside è caratterizzato attualmente da una finestra ovale, sostituita a fornici di origine paleocristiana. Ai lati sono state poste due colonne antiche, semplici, dal fusto marmoreo ben levigato. Altre due colonne sono affiancate all’arco trionfale e presentano un capitello corinzio, sormontato da un abaco in stile bizantino, ornato di croci e foglie a rilievo piatto. Singolare è, inoltre, il capitello all’ingresso che funge da acquasantiera. Decorato con mostruose immagini animalesche ed umane di chiara fattura occidentale, risalirebbe all’XI secolo. Tra i numerosi affreschi della chiesa -San Vito, San Nicola, SS. Biagio e Chirico, un Santo Vescovo, San Paolo, Santo Stefano ed episodi della sua vita, diversi ritratti e varie Madonne con Bambino- attribuiti ad epoche e artisti diversi, emerge un nucleo omogeneo risalente alla metà del XIV secolo. Si tratta della bellissima immagine di Santa Caterina d’Alessandria, del Cristo di Pietà e del frammento di un’Annunciazione raffigurante l’arcangelo Gabriele. La Santa, dal portamento solenne, mostra il capo coronato, circondato dall’aureola. Quest’ultima invade la cornice del riquadro e fa da sfondo al volto che, intenso ed espressivo, appare incorniciato da un’acconciatura alla moda, tenuta da un velo bianco, che dal mento corre a stringersi intorno all’esile collo. Tutta la sua figura è un saggio d’eleganza: raffinato è il lungo abito bianco, orlato e impreziosito da ricami floreali di colore rosso sul corpetto, sulla manica e sulla balza, regale è il manto che, dalla spalla sinistra, avvolge il braccio e ricade morbido lungo il corpo. Un altro saggio della maestria del frescante è dato dal frammento con l’angelo Gabriele che, ritratto di profilo nell’atto di benedire una scomparsa Vergine Annunziata, mostra un incarnato delicato, dei lineamenti aggraziati e uno sguardo dolce e profondo. I tre affreschi sono stati collocati a metà del XIV secolo e attribuiti, con molta probabilità, ad un pittore che, oltre ad eseguire le miniature della “Bible moralisée” realizzò gli affreschi della cappella di Pipino in San Pietro a Maiella a Napoli. Ipotesi avvalorata dal fatto che, a quel tempo, i Pipino erano signori di Altamura, Minervino, Potenza e Bari.