
di Michele Spera
Premessa
Ho ritrovato i libri che leggevo da ragazzo, con le consunte copertine ridisegnate, i compagni della mia giovinezza, le carte gualcite e scolorite dal tempo. Le antiche fotografie con i nomi appuntati, i miei poeti, le traduzioni da Catullo a cui mi applicavo con la testa china durante le ripetizioni da Mimì, che mi tirava su dalle orecchie e che poi è morto impiccato. Gli anni del collegio, fuori dalle mura della mia casa, di cui ricordo solo le mie paure.
Ho rivisto i miei primi disegni del liceo, al “Quinto Orazio Flacco”. Non sapevo allora di questo mestiere. Fu Nino Calice, il mio amico, che poi era il più bravo della classe, a dirmi che avrei dovuto fare il grafico. Nino era di Rionero, faceva il pendolare per venire a studiare a Potenza. Io lo ospitavo a casa mia e lui mi dava una mano, mi aiutava in quegli studi che non amavo. Era già nella vita, dialogava con i professori quando noi preferivamo il silenzio, l’anonimato degli incolti.
Ho ripensato agli antichi compagni di strada, a Pietro Soldi che allargava i confini delle nostre giornate parlandoci di Gobetti, di Salvemini, di Dorso, del nostro Sud senza speranze, che ci faceva compagnia e ci indicava le vie dei trapianti e della fuga. Dovettero passare ancora anni perché fossimo maturi per partire.
Potenza aveva i suoi segreti. Ci sono ritornato tante volte. Non mi do pace per quelle strade che non esistono più, la villa dei Gavioli o quella dei Viggiani, l’Epitaffio, la fontana all’incrocio dei Piani del Mattino dove ora vagheggiano aeroporti, la Macchia, i luoghi, insomma, della mia infanzia, quelli che ho amato.
E aveva un’unica libreria, Potenza, “La Libreria di Vito Riviello”, dove attraverso una botola si scendeva ad un buio sottano. Lì, accalcati, compivamo i nostri viaggi, guardavamo lontano. Ci preparavamo a partire.
Non tutti partirono. Ninì Ranaldi restò lì: si sparò un colpo di pistola alla tempia, non so quale disperazione lo uccise.
Pietro Basentini cantava intanto le sue filastrocche. Non sul Risorgimento dei vincitori ma su quello dei vinti, degli oppressi, delle speranze deluse e dei cafoni che subirono la repressione piemontese. «Un due tre, fanti briganti e re». Cantava dei diseredati che si fecero “briganti”.
E si muore nu brigante
e si cade nu soldato
nun è fatt’ importante
sapé dopo chi è stato,
e si po’ vire appena
na ferita alla spalla
è na nuvola piena
di sogni rossa e gialla.
E si rossa è la rabbia
e si gialla è la terra
so’ parole curiose,
ma parole di guerra
perché giallo è il rancore
di chi uccide e non sogna
perchè rosso è il dolore
della loro vergogna.
T’hann’ accis’ brigante,
t’hann’ accis’ cafone,
ti dirann’ emigrante,
ti dirann’ terrone.
E si la voglia d’accire
ritornerà a galla,
nun penzà: è na nuvola
di sogni rossa e gialla.
Dopo qualche anno Vito mi raggiunse a Roma, abitavamo un piccolo appartamentino in cima alla città. Si scrivevano poesie e si dipingevano quadri pop. Avevamo affidato i paesaggi lucani, i cieli del meridione, alla memoria.
Rammento gli studi di architettura, le mostre, la scuola di incisione di San Giacomo, la borsa di studio per cartellonisti dove insegnavano Manfredo e Brini, la scuola del nudo di Villa Medici, gli incerti esercizi di calligrafia.
Ho ripercorso i primi manifesti di allora inventati con carte colorate, con i caratteri incollati, disegnati con le matite. Il primo, del 1962, era per un convegno del partito repubblicano sul Mezzogiorno: misi l’Italia rovesciata, l’illusione di portare il nord nel meridione, e l’attacchino ce li affisse tutti capovolti.
La tipografia di allora aveva il mettifoglio a mano, lo spessore dell’inchiostro potevi sentirlo con le dita: forse per questo i nostri volantini cadevano sempre in piedi, come un gatto quando ti scappa dalle braccia. Fu così che cominciai a fare grafica politica.
Finalmente a Roma
Ritornavamo a casa all’alba ebbri di sogni e di poesia. Fu quello il tempo degli studi di architettura, della pittura, di una ricerca mai sazia, della frequentazione di grandi, ma anche variopinte personalità della cultura romana che facevano capolino da Rosati a piazza del Popolo. Allora dipingevo, facevo mostre, davo corpo alle mie immaginazioni.
In quegli anni, era il 1962, vivevo con Vito Riviello in un appartamentino a piazza dell’Orologio, proprio sotto la torre del Borromini. Era minuscolo. Ma sulle finestre si aprivano i tetti di Roma, si abbracciavano ampi e ariosi spazi.
Passavano per quella casa i nostri amici di gioventù, che avevamo lasciato nel Sud; venivano a trovarci e a cercare a Roma le gallerie d’arte, i posti di mitici incontri. Gerardo Corrado, pittore del Mezzogiorno chiamato a Potenza «Giottino» per la sua abilità, Rocco Falciano, lo scultore, che una volta frugando tra i miei quadri si intrise di vernice sintetica restando quasi cieco, Beatrice Viggiani che lì scrisse un libro dopo la sua fuga dalla provincia e che poi si perse in Sud America. Passarono tutti da noi.
Accadeva tutto intorno a quella piccola casa. Ce la disegnammo noi; ogni mobile era il risultato di una faticosa costruzione artigianale. Le lampade, i tavoli, gli armadi e tutto il resto li avevo costruiti con “cantinelle” di legno, assemblate sempre con uguali e poveri criteri. Ma erano fatti su misura per noi.
È rimasto ancora oggi qualcuno di quegli oggetti a svolgere la sua funzione, e un persistente, acidulo sapore di legno.
Da quella casa io non mi sono mai mosso, forse mai mi sono allontanato.
In quegli anni venivano a trovarci i “grandi”, di cui fummo sorprendentemente amici: Libero de Libero e Leonardo Sinisgalli che ho così profondamente amato, Alfonso Gatto dagli occhi cerulei, Giacomo Porzano e Bruno Caruso che mi insegnarono a disegnare, Lidia Olivetti nella cui villa andavamo Vito ed io, Carmelo Bene, che faceva il suo primo teatro, Dacia Maraini, amica di Vito. Carlo Levi che un giorno a Villa Ruffo mi fece un ritratto e scrisse la presentazione alla mia mostra alla Scaletta di Matera.
“Tornano, nei quadri di Michele Spera, le figure eterne della Lucania, con quelle del grande mondo di oggi: i contadini, gli americani, i briganti, il cupo-cupo; e le macchine, e l’uomo dolente, spellato, ridotto a puro oggetto sensibile sotto il peso geometrico di un nero senza modulazioni; e la morte.
Queste realtà, della Lucania e del mondo, ci giungono in forma particolare. Michele Spera è un grafico; e i procedimenti, la precisione, le campiture, la linea del grafico entrano nella sua pittura, come elemento formale sempre presente. Ma soprattutto la sua pittura si ispira e deriva dal procedimento fotografico, e lo ritrova; come se la segretezza degli istanti privati cercasse di nascere nella camera buia per terrore di non poter approfondire la realtà nelle infinite implicazioni della luce del sole… Gli emigranti stanno immobili nella loro storia, tra i pericolanti simboli del disegno industriale; il cupo-cupo diventa geometria colorata di onde sonore, ma ancora Ninco Nanco con il suo compagno brigante, lo ascolta e lo spia, nascosto tra le foglie verdi della foresta”.

Da sinistra: Michele Spera, Leonardo Sinisgalli e Vito Riviello a Matera in occasione della mostra di Michele Spera alla “Scaletta” nel 1964
Leonardo Sinisgalli
Ho conosciuto Leonardo Sinisgalli nel 1963. Un incontro memorabile che ha segnato la mia vita. Sinisgalli aveva appena abbandonato Milano trasferendosi a Roma, deluso dall’accoglienza che non trovò più dopo le esperienze fantastiche di Pirelli (dove scoprì il genio grafico di Pino Tovaglia) e di Civiltà delle Macchine. La delusione di questo rifiuto lo segnò profondamente fino alla sua morte.
Nel 1964 a Roma fonda la rivista di design “La botte e il violino” per la MIM, Mobili Italiani Moderni che andrà avanti per 8 numeri e a cui collaborai con articoli e fotografie pubblicati nel primo numero della rivista del giugno del 1964. Le foto furono stampate su un foglio continuo a soffietto di cm 88×30 inserito nella rivista.
“Il liberty dei poveri. La baracca sui Monti Parioli sta tra Villa Balestra e Villa Ruffo, all’angolo di via Ceracchi e via Carlo Dolci, tra ambasciate e condomini di lusso, ai bordi di una minuscola bidonville abitata da ortolani. Ha una nascita incerta intorno al 1911, l’anno della grande Esposizione di Roma. Costruita con legni residuati dei padiglioni, con muratura di ripiego e lastre di bandone, è un esempio da conservare di architettura fortuita, in anticipo di trent’anni su quella esplosa alla fine della guerra e al principio dell’era neotecnica e dell’edilizia industrializzata. Si farà un album di questi fantastici tuguri fabbricati dal caso, dall’urgenza o dalla miseria”.

Nel 1965 Leonardo mi chiese un articolo con foto- grafie su Atella. Conservo ancora la sua lettera: «Caro Michele, portaci subito le fotografie delle case di Atella. Vorrei presentare questo materiale nel n. 7 della rivista, che è già in preparazione. Come facciamo ad agganciare Vituccio? Fatti vivo una di queste mattine.
Un caro saluto.
Tuo aff.mo Leonardo».
Le case di Atella in Lucania
Nel frattempo Sinisgalli compie insieme a Bruno Caruso e Lidia Olivetti una serie di viaggi che lo porteranno in tutto il mondo e ci porteranno regali che ancora conservo gelosamente.
In quel periodo io e Vito Riviello eravamo giovani e poveri in canna e Leonardo ci invitava a cena in ristoranti esclusivi, spesso insieme a Libero De Libero, Alfonso Gatto e altri mostri sacri dell’intellighenzia romana.
Nel 1966 Sinisgalli mi chiese di progettare un calendario dedicato alla MIM. Proponeva foto già pubblicate sulla rivista con l’aggiunta di mobili disegnati da Luigi Pellegrin e altri designer famosi e prodotti dalla MIM. L’intento era di mettere a confronto la civiltà contadina con il design moderno. Per vari motivi il calendario non fu realizzato ma ci piace qui riproporne alcune pagine.
Nel 1975 Sinisgalli viene a trovarmi a studio, in via San Damaso. Racconterà poi a Giorgia: «Chi l’ha detto che a Roma non ci sono case belle? Dobbiamo andare insieme a Filippo a trovare Michele per fartela vedere». E scrive la presentazione ad una mia mostra di disegni alla Galleria Artivisive di Sylvia Franchi a Roma.
“Che cammino ha fatto Michele Spera dagli anni in cui lo incontrai in via Pretoria a Potenza in mezzo a due giovani poeti, Beatrice Viggiani e Vito Riviello! Quando venne a Roma frequentò gli studi di Caruso, di Porzano, di Vespignani, tre disegnatori nati che gli diedero il gusto della linea cruda contro la linea molle dei pittori decadenti della scuola romana, Scipione, Mafai e gli altri.
Ma per quali vie subito dopo le prime esplorazioni nei paraggi di un certo realismo magico egli fu spinto all’abiura del vero e delle sue suggestioni? Forse fu l’urto con la pop art nostrana, quella dei giovani leoni Schifano, Festa, Angeli, o forse fu il rigurgito di una irresistibile vocazione artigianale – di un autentico esprit de tecnique – che spiegano meglio di ogni altra virtù i suoi nuovi traguardi.
Oggi Michele Spera sta nella tradizione dei nostri massimi designers, Nizzoli e Munari, per la ricchezza e fertilità inventive e anche per la capacità di “sentire la differenza di un millesimo di millimetro”, sta a livello di fantasia di un Grignani, di un Vasarely per quanto riguarda il potere selettivo delle pupille e la sagacia delle mani e del cervello nel moltiplicare quasi all’infinito tessiture e strutture spaziali sempre più incredibili (come sanno fare meglio degli uomini certi insetti). Ho ammirato la sua disciplina, i suoi metodi, la sua organizzazione. L’ho visto correre su uno sgabellino a rotelle nel suo laboratorio, passare velocissimo dal tavolo da disegno alla camera oscura, dall’archivio al- l’officina. È chiaro che il suo lavoro d’oggi non è contemplativo ma riflessivo, non ammette distrazioni o incantamenti: mi fanno ridere i poeti che aspettano la grazia, dice. Io ho l’obbligo di non sbagliare, di non correggere, devo per forza indovinare tutto di colpo.
Nel 1980 Sinisgalli fonda a Roma con Roberta Du Chene e Ida Borra la galleria “Il Millennio” dove espone miei disegni.
31 gennaio 1981 Sinisgalli muore per infarto. Muore dimenticato da quel mondo milanese a cui tanto ha dato e che ora è assente. Nella chiesa di Valle Giulia ci sono pochissime persone, le sole che gli hanno voluto bene fino all’ultimo.
Lettera a Leonardo
Caro Leonardo,
ti scrivo alla vigilia della chiusura di questo mio libro. Che ho concluso con fatica, con scelte prive di un tuo consiglio.
Mi manchi. Non c’è poeta che potrà sostituirti nel mio cuore. Come vorrei dirti, suggerirti in un soffio: «Leonardo, il mio libro!». Non potresti sentire.
Quel giorno venisti a Potenza, nella mia casa. Ricordo come mia madre ci accolse, felice. Preparò premurosa da mangiare. Si muoveva svelta ad apparecchiare la tavola, con la tovaglia migliore e i piatti buoni. La ricordo ancora così, mia madre Agata, come noi la vedemmo quel giorno, tenera e attenta.
Lei non conosceva i poeti; era in pena per me, per i miei studi e la mia vita sbandata, ma ricordo come mi riscattasti alle sue paure, alle sue disillusioni. Tu avevi già scritto di me, fu attraverso le tue parole che mio padre intravide per me un altro tempo, un possibile percorso.
«Avremo paglia per cento cavalli», andavi ripetendo. Loro ti ascoltavano con occhi lucidi.
Fu dopo di allora, tornato a Roma, che rimandai a mio padre il suo assegno mensile, quasi a convalidare quella sicurezza che tu gli avevi dato. Era una cifra modesta, ma per me fu un atto di eroismo.
A ripercorrerla ora la stagione di Roma non fu poi così lunga. Ci vedevamo con i tuoi amici, il tuo inseparabile Libero, Bruno, Lidia. Quante cose ci insegnasti, quante incredibili favole ci raccontavi.
Eravamo felici quando ci procuravi un lavoro, perché era un segno mal celato del tuo affetto carico di pudore. Ricordo i titoli di testa del primo “Studio Uno” che feci insieme a Bruno Caruso credo nel 1966, tutti disegnati a mano, tavola per tavola, con la minuzia di chi dà al tempo il giusto valore; o gli articoli e le fotografie per “La botte e il violino”, dove mi correggevi una parola, un segno, e mi indicavi la strada della poesia. Come posso dimenticare!
Prendesti in affitto, una volta, quella villa ai Monti Parioli, vicino a dove già abitavi: ti piaceva il giardino e quello spazio verde in piena città. Fu lì che ti portai Ugo La Malfa e riuscii a fare incontrare due miti della mia giovinezza.
Mi porto dentro ancora oggi un pentimento. Ricordi come ti piacque la mia casa? Dicesti: «Devi invitare Giorgia e Filippo a vedere questa casa, loro che dicono che non esistono più certe abitazioni a Roma!». Non riuscimmo a farlo quell’incontro, non ce ne fu il tempo. Ti ho accompagnato poco dopo nell’ultimo tuo viaggio, in quella chiesa di Valle Giulia, dove c’era un’irrimediabile morte e così poca gente a darti l’ultimo saluto.
Pagavi ancora una volta l’indipendenza che hai sempre inseguito.
Avevi ragione, Leonardo, quando dicevi: «Eravamo felici come for- se non lo saremo mai più».
Tuo, Michele
Dal libro “Michele Spera, 194 storie di un segno” Edizioni Socrates, 1996
Nel 1987 Giampiero Jacobelli, figlio di Jader, nel 1987 volle fare una rivista di grande formato per l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, che si ispirasse in qualche modo a “Civiltà delle Macchine”, famosa e storica creatura di Leonardo Sinisgalli. Si rivolse a me sapendo certamente i legami che mi univano a Sinisgalli.
Michele Spera
michelespera@speradesign.eu
www.speradesign.eu




