
LUCIO TUFANO
Le drogherie sono zeppe di coloniali, di spezie, di zuccheri e di essenze, di liquori e di lievito di birra, di sapori e di spiriti, di naftaline e di biscotti …
I negozi vivono del piccolo commercio, dei prodotti agricoli e dell’artigianato, alimentari come Maddalone e Mastrangelo, Nasoscazzato, chincaglierie come Caggiano, Di Pietro, parrucchieri, fotografi, Corrado e Giocoli, negozi di arredamento e colori …
Le vetrine sono più numerose, moderne ed allettanti al centro, all’avanguardia dell’esposizione.
Rispetto ai finestroni del Municipio e della Prefettura ed in genere degli edifici adibiti ad uffici pubblici, la fiaba delle contrade e dei contadini, suona eresia per le denominazioni: Poggio Tre Galli, Cacabotte, Malvaccaro Cugno del Finocchio, sconvenienti rispetto alla toponomastica patriottarda e risorgimentale, nobiliare insomma, di una città che fa pompa della sua altezza a capo della valle del Basento.
Se è vero che ogni città implica staticità nelle sue forme strutturate e dinamica nella sua storia, è anche vero che Potenza più che “dire” il suo passato, lo contiene.
Lo contiene nel suo centro storico, cuore e baricentro del suo equilibrio topografico, bussola delle latitudini e delle longitudini urbane, balcone, barbacano e balaustra delle case e delle chiese.
Esistente e progetto, segno insieme delle strutture sociali, esito delle circostanze determinate, testo dei modelli di vita e delle gerarchie dei valori, risorsa e sfruttamento, campo di forze interagenti, simbologia di realtà evocate, produzione e scambio, rappresentano il diagramma psicologico del privilegio e della disparità.
Da esso si dipartono l’identità di città meridionale, le sue componenti, la sua centralità e l’origine della sua crescita.
Ecco perché rivitalizzare il centro storico non è mai semplice operazione di rifacimento; ma è come procedere ad una riscoperta, coinvolgendo i diversi ceti e ridando splendore alla parte più antica.
Spetta a noi cogliere questo pugno di città, di immagini, di relazioni, di impulsi sociali ed economici, nelle suggestioni e nelle “memorie”, questo spicchio di mondo, come riepilogo … e non è possibile, pena la caduta dell’identità, prescindere dalle sue pietre, le sue architetture, gli spazi, dal suo grigio, dalla sua atmosfera, rumore diurno, dalle sue intermittenze postmeridiane.
Lo spirito rigattiere ci ricollega alla febbrile attività di quando eravamo ragazzi. Sin da allora praticavamo la rigatteria come un’avventura di filibusteria, la frenetica ricerca di cose strane, l’euforico scambio di oggetti imprevedibili ed originali, il commercio di sorprese, di emblematiche stramberie del passato. Da allora la curiosità ancora ci riporta alla ricerca del segno, al colore, al fregio del tempo, all’arazzo, al rame, all’antica moneta, ai mogani dalle sanguigne striature. Cose vaganti nello spazio, nei vuoti interstellari, nei fogli svolazzanti come messaggi pervenuti dall’aldilà.
Ogni cosa proietta una scena, uno spezzone di film, di esistenza. Ogni buco, ogni angolo, ogni porta, ogni casa storta che ci vide indagare freneticamente in quel microcosmo che pensammo universo.
Oggi sentiamo il bisogno di entrare nelle epoche come negli specchi con cornice, nella prospettiva dei quadri, delle pitture ad olio, negli interni e nei passaggi di Squitieri, di Giocoli, di Michelino Pergola, di Castaldi, di Masi, Gerardo Corrado e di altri artisti.
Ci amareggia il fatto che un passato popolare e creativo sia andato distrutto nelle burrasche degli eventi, nella patologia piccolo-borghese, nella paranoia dei modernisti, nella fretta di coloro che vogliono cancellare ed imbrattare, nella demente furia dei cataclismi naturali come i terremoti.
Abbiamo ancora nel nostro centro storico i vicoli, le arcatine, le finestrelle ed i balconcini, le architetture sghembe, curve, che ci ridanno il giusto scenario del nostro teatro, gloria e misura di uomini vissuti col piede nella piazza e l’occhio alla campagna.
Abbiamo perduto “il grande archivio del vicinato” che dava alle famiglie senza blasone e senza storia il dagherrotipo di gruppo alle pareti, i ritratti giganti.
Abbiamo visto dissolversi mobili rudimentali, usci, vecchi comò, sedie impagliate e cassepanche, ambienti familiari, evocatori del passato. Non più un’osteria, una bottega da sellaio, un antro da maniscalco, una locanda, una drogheria, tutto si è rinnovato e sono scomparse del tutto le piccole saghe di titolari e gestori che nei caffè si tramandava la licenza di padre in figlio.
E non è nostalgia per epoche tristi, per un genere di società dai forti contrasti di classe, bensì si tratta di un mondo che doveva gradualmente finire, morire di morte naturale senza precipitarne la distruzione e la scomparsa con l’alibi del progresso.
Ecco che oggi tentiamo di ricongiungerci con l’ieri, nel tentativo di penetrare nel profondo mistero tridimensionale della medianità.
Nelle taverne non c’era riposo, vi erano lampade. Spesso veniva il semi bagliore del “falò” a rischiarare la corte dei miracoli, le strettoie buie di accesso alle cantine, angusti porti di montagna, nei sottofondi della strada. Triminiedd di Salonicco, le mille ed una notte del baccalà potentino, cavatiedd e fasuli, lagane e ceci. Triminiedd, oste salgariano dai sapori acuti e solenni della malaìsia, acre soffio di aglio, aglianico e malvasia, oriente di Napoli. Triminiedd, mani che tremano di sale, olio e conserva. Bassifondi di Largo Liceo, vico Addone, estuario di uscite, taverna primitiva, bivacco per i falciatori di Cerignola, paranze, cavalcature e masnadieri di Aversa, Ripacandida e Gorgoglione, pausa per quelli di Lavangone e Cerreta; noci e noccioline, luci a bicchierini nella festa degli scroppi e delle detonazioni.
Le feste, con le occasioni di fiera o di mercato, brulicano di ambulanti, venuti a vendere le merci ed a regalare voci e gergo, facce e novità.
Un mondo in gran parte contadino, formicolante nelle viuzze, nei vicoli, nelle scale, negli anditi, un povero mondo inquilino dei sottani. Un mondo di pochi borghesi con lo stemma sui portoni, di impiegati, di barbieri, quelli dei saloni, spiriti osservatori, mordaci presenze coniatrici di motti e di sfottò, custodi del gergo e della battuta, e del quale faceva parte l’indefinita schiera dei commercianti.
Oggi non v’è grande città d’Europa che non dia la sensazione di volersi riconoscere, di voler palesare la propria identità, che non mostri nel suo più antico ventre le vecchie insegne di commercio, le sue soglie ottocentesche, gli stigli o gli stipiti di gloriosa nocemansonia. Da noi il prefetto fascista fece scardinare le porte in via Pretoria, ingombro alle sfilate, alle coreografie articolate del regime di gambali e gagliardetti, di labari a squadre. Fu il primo Attila del legno. Le rumorose saracinesche deturparono l’ingresso alle botteghe che si fronteggiavano e si contendevano l’occhio dei passanti. Infatti la gente vi si soffermava, scrutava dentro: omìni ed omoni, vecchie zitelle, sensuali padroni del bancone e delle penombre, amministratori del santo patrono, coabitarono con piramidi di barattoli, in cima alle quali vi era la Madonna di Pompei, divina provvidenza per le tavole senza sugo.
I commercianti di Potenza, personaggi neuro comici, abitatori degli spazi angusti, con i capelli arruffati, le lenti sulla punta del naso, le orecchie a sventola, buffi, usurai e scordaroli, barattavano le facce del re impresse sulle banconote e sulle carte da gioco, sleali scontatori di cambiali dalle perentorie scadenze.
Una breve gerarchia dei “Panizza” era il mondo di Patania con i diplomi in cornice, il lampadario e gli armadi. Le alte colonne di cappelliere racchiudevano gli inverni in borghese.
Il gorgonzola, il fiabesco mondo di carta oleata da Peppinuzzo Maddaloni. I lacrimevoli provoloni irraggiungibili sugli altissimi banconi. L’affettatrice veloce di Nino Mastrangelo sibilava rosette imbottite. Figlio di Stanislao, il Biagio Barra dei cappotti di pelliccia e di panno pesante, l’astrakan ambito di Gògol, Ignomirelli il mago dei gomitoli e delle matasse, aveva un androne di parche che filavano, tessevano gli scampoli variopinti negli scaffali aperti e dove la mazza-metro danzava sulle tacche misurate in centimetri. Stoffe variopinte, tele americane, popeline e cotone di Pietro Lamorgese. La naftalina tutelava l’integrità dei percalli. Caggiano dei rocchetti, delle calze e delle matassine. Tutti i bottoni di madreperla, variegati, di metallo e di stoffa tappezzavano le pareti.
Alla grande saracinesca dell’Unica si appendevano i nani gestori, strani guardiani delle carte argentate, delle confezioni cromate, dei grappoli di mentine, delle filastrocche di frutta candita, delle bacchette, dei quadratini, dei coriandoli di liquirizia. Franculli, botti grandi come cavalli, bicchieri di lacrima – paglierina ed i portoni che furono scuderie per i signori e poi meandri pervasi di acre odore di mosto, di fumo, di voci, di simbologie gridate tra le bestemmie di “accio” e lupini e le bisunte carte napoletane. Gli orologiai, pazienti, assidui, puntigliosi, catturavano i minuti primi, i secondi e facevano combaciare la marcia delle lancette, nell’angusto quadrante, ai fusi orari della cronaca. Gli orologiai, giudici oggettivi che registravano i battiti del cuore-giocattolo (e parlavano l’esperanto), il tempo ecologico delle foreste, la piena del fiume, le metamorfosi di classe, gli eventi e gli accadimenti, il tempo “durata”, arco di traduzione della Storia, il tempo cronologico, logico, quello che segna lo sviluppo degli eventi.
Lorenzo Costantino Topazio, diplomato in fisica ed orologeria sperimentale all’Istituto “Schurzvanzen” Saint Imier – Svizzera. L’occhio slargato dall’uso del monocolo sugli inquieti bilancieri, bottega di via Pretoria, a Porta Salza, ebbe un primo brevetto per un orologio a pendolo con movimento verticale nel 1936.