COME MAI IL NO HA PERSO

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Marco Di Geronimo

La vittoria del era scontata ma non assolve la campagna del No dai gravi errori commessi nel corso degli ultimi mesi. Il taglio dei parlamentari è diventato realtà: gran parte di questo risultato è da imputare ai Comitati per il No, che non sono riusciti a spezzare la percezione diffusa in tutto il Paese che questo referendum fosse l’occasione per mandare a casa i parlamentari più corrotti.

Lo studio della cartina geografica rivela un Mezzogiorno fortemente favorevole alla riforma costituzionale. Già in tanti hanno evidenziato il parallelismo tra il grido di dolore di una comunità abbandonata a sé stessa e l’istanza di riscatto (o forse di vendetta) che i meridionali coltivano in maggioranza contro una classe politica colpevole d’averli condannati alla miseria. C’è di vero in questa lettura, confortata tra l’altro dai primi studi sulla distribuzione del voto tra centro e periferie nelle città. Il No è apparso il partito della ZTL, che d’altronde da decenni mantiene un rapporto coi centri di potere assai più stretto rispetto alle periferie (e quindi nutre una consapevolezza maggiore del ruolo dei parlamentari nell’amministrazione dei territori).

La grande frattura tra un Nord più e meglio rappresentato e un Sud ostaggio dei notabilati locali si apprezza pure sul piano dell’affluenza. L’effetto traino delle elezioni regionali è apparso molto più forte nelle Regioni del Mezzogiorno, come conferma l’Istituto Cattaneo (uno scarto di quasi 20 punti percentuali rispetto ai territori non mobilitati dal rinnovo dei Consigli e dei governatori). Il primo peccato mortale dei Comitati del No è stato non comprendere il rischio di una mobilitazione insufficiente nelle Regioni meridionali.

Costituiscono certo attenuanti generiche gli scarsi numeri degli attivisti, questa volta assai esigui in virtù di una resa preventiva di tutti i partiti. Tuttavia l’incapacità di mobilitare sia le città meridionali sia i piccoli centri che vi gravitavano attorno, e di conseguenza l’impossibilità di trascinare nella mischia i sindacati e le organizzazioni più forti (le uniche con un minimo di appeal sull’elettorato del Sud) ha gravemente compromesso la possibilità di guadagnare le percentuali necessarie a mitigare la sconfitta (che col 70-30 segna 40 punti di scarto).

Le prime analisi dei flussi elettorali e gli intention polls rilasciati subito dopo la chiusura delle urne confermano che il No è stato sostenuto principalmente dalla base del PD e da larghe fasce di Lega e Fratelli d’Italia. Stiamo parlando di partiti che dovrebbero, per ideologia o per convenienza, rivolgersi alle classi basse e mobilitarle al voto. Non sorprende affatto scoprire, invece, che tra gli operai il ha raggiunto la percentuale bulgara dell’81%. La disintermediazione e la lontananza tra i partiti e i vari corpi socio-economici del Paese dovrebbe bastare a spiegare questa divaricazione tra base dei militanti e resto del mondo. Quello che la campagna del No deve invece domandarsi è per quale ragione non è stata in grado perlomeno di oliare i rapporti tra questi partiti e i loro elettorati di riferimento.

In particolare i Comitati del No più vicini al mondo progressista avrebbero dovuto e potuto trasformarsi in centri di mobilitazione delle fasce più deboli, denunciando in maniera più efficace la truffa della riforma costituzionale. Un lavoro di questo tipo è estremamente difficile in assenza della collaborazione dei sindacati e soprattutto nella platea (che da anni ha virato verso il M5s) di sottoccupati e disoccupati, che per definizione è liquida e priva di strutturazione. Tuttavia questa scusa non assolve la campagna dei contrari dalla pesante responsabilità di non essere riuscita a elaborare una strategia (comunicativa e aggregativa) capace di mietere migliori risultati nelle classi sociali che maggiormente saranno svantaggiate da questa riforma. L’assenza dei Comitati dalle fabbriche, dai luoghi di lavoro, ma anche dai circoli ricreativi, dalle piazze di paese, si è fatta sentire e ha inciso profondamente sulle sue capacità di riuscita.

Ha valore solo autoconsolatorio ricordare la particolare complessità del problema e bearsi dei risultati positivi raccolti tra le fasce più istruite (e più ricche) della nostra società. I dati incoraggianti che si mietono tra i laureati e tra i più giovani dimostrano soltanto una vera e propria incapacità comunicativa nei confronti delle altre classi sociali. Il problema non si risolve in una certa difficoltà nell’usare i social media – non bisogna dimenticare che, privati degli uffici stampa degli organismi strutturati e delle “braccia” dei militanti dei partiti, i livelli nazionali dei Comitati del No sono stati occupati spesso da persone più anziane con evidenti limiti nel giostrarsi con la comunicazione del Duemila. Il vero addebito da elevare a carico della campagna dei contrari consiste nel non essersi accorti della natura estremamente tecnica della riforma costituzionale, che prestava il fianco a interpretazioni demagogiche spesso favorevoli agli avversari.

In senso più ampio, la tattica comunicativa assume un ruolo minore se comparata a una strategia elettorale molto solipsista e poco capace di convincere le persone. Le lezioni dei costituzionalisti, gli incontri riservati, le spiegazioni con cui rispondere colpo su colpo alle varie argomentazioni del hanno fatto molto per convincere le fasce più istruite ma non sono riuscite ad appassionare i più poveri e i più disperati. La campagna del No ha scelto una strada pacifica ma poco efficace e non è riuscita nemmeno a coordinare le manifestazioni di maggiore aggressività che forse avrebbero permesso di bucare lo schermo. Per dirne una, la retorica dell’attacco alla Costituzione avrebbe dovuto essere concertata e meglio ponderata a livello nazionale.

La natura tecnica della riforma avrebbe dovuto consigliare anche una maggiore preparazione e formazione dei membri dei Comitati del No, specialmente nelle vaste (e ahimè spesso abbandonate) ripartizioni locali. Le mille e sottilissime implicazioni giuridico-istituzionali della riforma sono state spesso fraintese, alle volte dagli stessi militanti per la causa dei contrari. La mancanza di una tattica nazionale di comunicazione – che comprendesse appunto anche una campagna di preparazione dei militanti – ha spesso disperso e confuso le voci degli attivisti.

La pausa del lockdown appare inoltre un aggravante troppo importante per essere ignorato. Quel tempo poteva essere dedicato per orchestrare proprio quella serie di iniziative interne che dovevano servire ai Comitati locali per attrezzarsi alla battaglia, dotandosi di slogan, parole d’ordine, tecniche di aggregazione ed espedienti retorici e logistici che un centro nazionale ben preparato avrebbe dovuto saper elaborare e distribuire proprio in quelle settimane. A maggior ragione appare molto sprecato anche tutto il tempo estivo, durante il quale la campagna dei contrari avrebbe dovuto scegliere delle linee comunicative d’intervento assai dirompenti per penetrare lo schermo televisivo e magari attirare l’attenzione nel periodo in cui l’unico argomento politico erano le discoteche aperte. Il periodo sarebbe stato anche propizio per avviare una campagna d’iscrizione e mobilitazione che poteva rifornire i Comitati locali di risorse fresche, da mettere subito al lavoro nel corso della superveloce campagna referendaria settembrina.

I sette milioni di votanti contrari alla riforma costituzionale rappresentano poco più di un decimo della popolazione italiana, circa il 15% degli aventi diritto al voto. La scarsa affluenza delle Regioni non coinvolte dalle elezioni però non basta a consolare i sostenitori del No, come dimostra d’altronde il dato lucano (in cui i voti favorevoli sfondano quota 75%). Chi sostiene che il 30% di questo referendum dimostra la volontà di porre fine all’ondata populista fa bene a chiedere che i Comitati del No non si sciolgano affatto, ma invece procedano a un’opera di mobilitazione permanente per premere verso l’adozione dei correttivi.

La riforma non si arginerà da sola e i numeri che abbiamo appena dato ci dimostrano che, se il pezzo di Paese amante delle carneficine a gratis si è ridotto, i fuoriusciti si sono abbandonati alla depressione referendaria e non sono andati al voto. Gli elettori che si sono mobilitati perché credono in una certa idea della democrazia hanno bisogno di un corpo sociale davvero capace di mettere a frutto i loro sforzi e di combattere la battaglia politica necessaria per garantire un futuro stabile e sereno alla nostra Costituzione e alla nostra rappresentanza politica. Serve che il messaggio di partecipazione e di lotta suoni più chiaro e più forte. Solo da questa conclusione può ripartire con cognizione di causa la nostra battaglia per una democrazia a misura d’uomo.

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Sull' Autore

Classe 1997, appassionato di motori fin da bambino. Ho frequentato le scuole a Potenza e adesso studio Giurisprudenza all'Università degli Studi di Pisa. Ho militato nella sinistra radicale, e sono tesserato all'Associazione "I Pettirossi". Mi occupo di politica (e saltuariamente di Formula 1) per Talenti Lucani. Scrivo anche per Fuori Traiettoria (www.fuoritraiettoria.com), sito web di cui curo le rubriche sulla IndyCar e sulla Formula E. In passato ho scritto anche per ItalianWheels, per Onda Lucana e per Leukòs.

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