
LUCIO TUFANO
È la provincia, alveo piuttosto angusto di illusioni e di enfasi retorica, di fermenti banali, a volte anche linci, e di quella rigogliosa risorsa, l’inventiva, che spesso esprime il meglio dell’arte, di quella che, ben confezionata, di solito rinsangua le inaridite arterie dello spettacolo e della cultura nazionali.
La provincia che, pur rimanendo esclusa dai circuiti necessari e ignorata dai praticanti delle cattedrali del successo, è pur tuttavia il microcosmo dentro il quale pullulano i fermenti e le idee.
È la provincia che nell’indifferenza dei produttori, dei grandi editori, dei più noti registi, degli impresari degli impresari di arte e degli imprenditori più facoltosi, secerne la indispensabile linfa utile ad alimentare il genio e infervora lo spirito della risata, tra un bicchiere di rimpianto ed una imprecazione di rammarico, e dove tutto si macera nella polvere delle annate che corrono come treni.
È proprio qui, sul palcoscenico dell’isolamento, dell’applauso di frodo ed anche esiguo, nella propria citta e nel paese, che si sperpera il talento lungo le disperate serate di amicizia, le mattinate dei Dopolavori, le sofferte sortite delle Proloco, dei Municipi, dei Circoli di cultura, dentro gli sporadici ambientini delle sale parrocchiali o nei centri sociali, ed infine nei caffè, nelle osterie e nelle confidenziali periferie.
È qui che operano, si esibiscono o si scherniscono i guitti arzilli o gli autentici animatori della risata, le voci canore e le affabili fantasiose espressioni di repentini cabaret, la frizzante follia delle iperboli e dei nonsense, le nevrosi della ironia, del sarcasmo e la routine piccolo-borghese, le malinconie territoriali, anagrafiche e condominiali, gli sprazzi di euforia e di apoteosi perennemente smorzati dalle docce fredde della invidia e della indifferenza.
Nelle eclissi degli anni, giullari senza epoca e senza ruolo, buffoni d’istinto hanno tessuto facezie e racconti sulla tetra noia, mentre avrebbero forse meritato la gratificazione televisiva o di un pubblico più numeroso per un repertorio che andava tesorizzato e potenziato come avviene per quello, spesso insulso, che ci viene propinato quotidianamente. Ad essi invece è mancato perfino il teatro locale, come ingaggio; è mancato il teatro televisivo, quello delle Vittorie, il Bagaglino, quello dei Parioli, o gli studi di Cinecittà, il teatro di posa e fors’anche quello della piazza. È mancato il palcoscenico giusto, l’allestimento delle scene e la zelante regia dalle quinte.
Ci fu anche il tempo in cui personaggi estrosi trovavano ospitalità nei palazzotti rinascimentali, nella attenta curiosità delle case e dei ragazzini, con sonagli al farsetto, alle brache, al mantello, un cappuccio sulla testa, un liuto o una mandola ad armacollo, nell’interesse delle donne e divertendo il popolo, esercitando la facoltà di suscitare il riso.
Divertivano tutti, gli umili e i potenti, spargendo grani di umorismo, di buonumore e velando con espressioni allusive il rimbrotto e la accusa per i signori più distaccati e severi, destreggiandosi così fra l’adulazione e il rabbuffo.
Tuttavia quello di far ridere è un mestiere difficile. Lo hanno affermato Moliere, Rabelais, lo hanno dimostrato Plauto e Terenzio, Petrolini e Totò, Macario e Fabrizi e molti altri comici del nostro mondo cinematografico e teatrale.
Ma Tonino La Rocca ha fatto ridere. Ha fatto ridere una città, tormentata da angosce gogoliane e burocratiche, in quei lunghissimi e glaciali anni dai ritmi lenti, l’inesorabile corso dei giorni senza novità o emozioni. Ha fatto ridere un pubblico vario, quello della vecchia città, della disperata “bohème” proletaria e artigiana, della media borghesia e della città amministrativa e politica dai discorsi ripetuti, dai muri tappezzati di noiose ordinanze da avvisi e manifesti dell’annona, dalle maldicenze di vicoli e caffè, dalle invidie rancorose di uffici e palazzi.
Come la sua personalità fosse intimamente connessa con la nozione e l’idea stessa del comico e del teatro, lo attesta tutto quello che egli ha scritto e recitato, quello che ha fatto nell’essere prediletto attore del nostro teatro locale, di altri teatri nel tempo e in varie località, ed essenzialmente nel nostro “Stabile”.
A quest’arte egli ha dedicato buona parte della sua esistenza nel dopoguerra e negli anni successivi.
È pur vero che dalla fine dell”800 e dai primi del ‘900 si è riscontrato come il talento locale abbia avuto sussulti anche importati con Egeo Carcavallo, con quelli della “Brigata dell’Arte”, composta dai filodrammatici del dopolavoro di Potenza: Lelio Manta, Maria Corneo, Italo Squitieri, Guido Cironna, Dora Tanin, Ida Pomponio, Rosa Stolfi, Nicola Torio, Francesco Cocca, Giuseppe Bonpresa, Ugo Squitieri, Mimì Paiamone, Attilio Viola; Tonino Costabile, A. F. Forlenza, diretti dal Dott. Federico Gavioli e animati da Domenico Bavusi, con la attrice di fama anche nazionale Italia Volpiano, con gli attori delle varie iniziative potentine, sia per le compagnie dei postelegrafonici, sia per quelle altre improvvisate o per quelle organizzate nell’ambito della Scuola Rosa Mattoni Mussolini. Attori ed autori come Michele Rossini; grande macchiettista, e tanti altri che si sono esibiti negli ultimi decenni.
Ma La Rocca è il nostro amico ‘900, egli non si è limitato ad organizzare qualsiasi tipo di spettacolo, ma vi ha voluto lavorare da interprete, capocomico e protagonista, così come una forte carica da cineteatro lo animava; giacché gli è mancata la determinata e opportuna occasione del varietà o della rivista nazionale. Ha però esercitato il suo repertorio in un arco d’anni che è nostro per tutto quello che contiene di Tanghi, di Fascismo, di operette, di canzoni, di pause e di silenzi, di amori e di risate, nell’epoca che a noi, vicini alla sua generazione, è ancora viva per i telefoni bianchi, per i film di De Sica, di Macario, di Mario Mattoli, di Camillo Mastrocinque, di Totò, di Natalino Otto e Riccardo Freda, per presenze come Armando Falconi, Ermete Zacconi, Ruggero Ruggeri, Carlo Tamberlani, Angelo Musco, e per quelle altre un pò più remote come Maldacea e Petrolini.

1974, basentini, tamma, larocca
E Tonino viene da quella primavera di bellezza, dalle adunate del sabato, dalle colonie marine ed elioterapiche, da una città assediata da balilla e giovani fascisti, dai Littoriali, dalle gare ginniche, dai film “Luce”, da tutti quei simboli che furono cari alle generazioni che ci precedettero e alla nostra, medesima adolescenza. Proviene dallo sfuggente sigillo di quella radio “Marelli” in bachelite con il cinguettio intermittente che annunciava i programmi dell’EIAR; dalle canzoni di Beniamino Gigli, del Trio Lescano, dagli anni ’40, dalle carte annonarie, dalle marce topografiche, dai campi Dux, da tutte quelle trame in celluloide a cui assistemmo trasognati.
Con Tonino La Rocca noi abbiamo vissuto gli anni delle adunate e dei comandi, delle voci reboanti, delle retoriche imperiali, della guerra e del dopoguerra, di “Amapola” e di “I love you”, del buchi-buchi, delle essenze di erbe, di viottoli e di siepi, della villa di piazza 18 agosto, dei larghetti e dei portoni, di via Pretoria, di Monte Reale e delle palazzine Incis, dei misteri insondabili di una gioventù e di gran parte della esistenza interamente spese in attesa di tempi nuovi, di successo e nel contempo travolte e sperperate dalle contraddizioni della storia.
È per questo che egli proviene dalla reminiscenza, da quella del grande teatro, il teatro come metafisica, come demiurgo, come brama di seconda vita, giacché da bambino pensava di esibirsi con l’ausilio di vecchie casse, costruendo un vero e proprio palcoscenico in una stanza deposito della sua abitazione, o reperendo, nei cassetti del comò, macchiette scritte e altro già utilizzati dal fratello più grande, insomma adattando al suo teatro tutto ciò che poteva rinvenire.
Tonino fu di casa nel nostro fare teatro, quel teatro del nostro tirare a campare, tra ufficio e famiglia. Prosa, rivista, varietà, lirica e operetta, specie l’operetta, furono la sua predilezione sin dal periodo giovanile, sotto le armi e dopo, al rientro dalla guerra, fin negli ultimi anni.
In questo suo racconto-diario egli annovera tutto quello che ha potuto fare, quello che avrebbe potuto e non gli hanno fatto fare. L’operetta fu il suo amore particolare debuttando in “Madama di Tebe”, ne “II paese dei campanelli”, in “Cin-ci-là”, in “Addio giovinezza”. Fu attore di rivista, e di varietà con l’allestimento di Enzo Vetrone, in lavori come “Tutte le strade portano a Roma” del Prof, Mario Garramone, e ne “La Caravella” che da Bari venne rappresentata anche al Teatro “Stabile” di Potenza. Nel 1968 fonda la “Compagnia del Teatro Stabile” e si adopera in una lunga serie di debutti ed episodi. Un repertorio assorbito ed elaborato, erede di battute e motti spiritosi raccolti nei larghetti della città e nei saloni dei barbieri ironici e mordaci, nei salotti delle case borghesi e nelle fumose trattorie, come eredità di una filosofia della sconfitta, di una via comica atta a vivacizzare gli anni grigi della sobrietà, il comportamento degli scritturali e degli applicati, dei timorosi impiegati, dei contadini timidi ed interdetti, e che fanno trasparire in lui la goffaggine finta e necessaria del capocomico, ed infine l’anima della moltitudine in aspettativa di successo, la ribalta degli anonimi per una fragorosa platea di spettatori.
Tonino La Rocca appartiene al nostro ‘900, in qualità di compagno di viaggio generazionale, attivo ed esilarante testimone di quella solitaria, spesso noiosa, a volte superflua, ma sempre accorata avventura tra gioie e amarezze, sogno e realtà.
È così che con questa pubblicazione s’intende diramare un messaggio ai giovani, a quelli che vennero e che verranno dopo, significando come la storia di una citta è essenzialmente storia di uomini, delle loro aspirazioni, del loro operato, ed essenzialmente dei loro sentimenti, specie se espressi con l’ausilio dell’arte.
E proprio come chi si prende gioco della vita e ne deride gli aspetti più salienti, egli ci rinvia ad un palcoscenico della memoria, riproponendosi alla nostra considerazione argomentata dalla sua bravura, con la nostalgia per il suo tempo, e suscitando la stessa per il nostro.
Si consegna così nelle sue quasi supreme attestazioni, nella sua minuta-grande abilità istrionica al nostro teatro d’imprecazioni e di sberleffi, alle misere ed opulente trame della nostra tragicommedia.
in copertina, Tonino La Rocca e Nanni Tamma