di Antonio Lotierzo
Osservando da fuori la ‘fortuna’ d’una poesia, continuo a chiedermi perché in alcune letture-incontri ( dell’ Unitre, di Remo Votta) sia stata scelta questa poesia per rappresentarmi. La forza del testo è nella sua allucinazione, nella sua alterità rispetto alla storia concreta, rispetto al presente. Anzi la caratteristica è proprio quella di comprimere il tempo, come in una sorta di buco nero entropico, in cui cioè i tempi diversi (l’io soggettivo, il vicinato, l’immagine della madre, il fanciullo del vicolo, i volti antichi) si riallineano e coesistono come se non fossero morti e scomparsi. L’allucinazione è proprio in questo: i morti sono lì, vivi nello sguardo di chi legge e, seguendo delle azioni, non sa se siano compiute da esistenti o da non più esistenti. E’ la teoria dell’eternità degli essenti, che non muoiono, che si rendono invisibili, ma non per questo scomparsi o non più viventi. Eterni sì, in un tempo considerati con gli occhi della fisica quantistica, forse, o con la teoria degli eterni di Severino. Nel mio sguardo razionale sul mondo, nella mia specola illuministica e ristretta si apre qui un varco di contraddizione, penetra un fascio di invisibilità a scalzare le ristrettezze del tempo cafone e quotidiano. Non so neppure come ho scritto questa poesia, ma vi era una forza interiore che smuoveva delle contraddizioni. Forse era una dimensione simile a quella del sogno. Ma questo sogno era realtà, apriva un orizzonte più concreto delle ristrettezze meschine delle cose visibili e perciò ritenute le sole reali. Un’ambivalenza se volete o una surrealtà; la fuga verso uno scompenso. Ma passiamo a fornire un commento all’immagine del gelso nell’attuale consistenza topografica. Il gelso del testo, plurisecolare, venne tagliato, si disse perché, essendo il triplo, con l’enorme chioma scaricava i rossi gelsi sulla strada e suscitava le lamentele dell’ignobile acquirente sottostante o degli stucchevoli passanti che si sporcavano, in onore di un civismo piccoloborghese squallido, che aleggia e spegne il centro storico vuoto svuotato di energia vitale, delle grida dei bambini e delle urla salvifiche delle madri, dei pettegolezzi delle convicine, della vita che ragiona sul male penetrato dagli altri. Nl 2024 è come lo mostra la foto. Si era sul terrapieno che evidenzia ciò che fu riportato come ‘giardino di delizie’ (forma paradisiaca introdotta dagli arabi, cui si attribuirono solo nefandezze). Due colonne o brandelli di mura ottocentesche evidenziano ciò che fu corpo di fabbrica. Cataste di legna in spazio pubblico rinviano ad una occupazione improvvida per un focolare impreciso. Splendente a nuova vita la casa a sinistra domina lo spazio e il vicoletto occupato dal silenzio della lunga muraglia, priva di cocci aguzzi di ligure bottiglie. Quasi una baracca o tenda metallica a destra tutto svilisce. E’ questa la bellezza del centro storico: ristrutturazioni eleganti frammiste a imbarazzanti occupazioni dei rari residenti, che si smuovono guardinghi, incerti sulla loro reale consistenza ontologica. Pure figure, che sfumano nel mito. È questa la coscienza? Una durata, diceva Agostino di Ippona (qui richiamato dai due Agostino…) in cui le immagini delle precedenti vite si ripresentano vive più ed accanto agli stinti esistenti, che passano in un saluto che non costruisce più un mondo. Dove sono i falò di s. Giuseppe e le patate cotto sotto la cenere, annaffiate col benevolo vino? E le relazioni d’un tempo, smarrite come le nevi. Leggiamo ancora il testo, che apparve negli anni Novanta, poi nella raccolta “Golfo di sogni inquieto” (che spesso viene storpiato con il plurale: ‘inquieti’, riferito a sogni, ma il testo riferiva l’inquietudine al golfo – riparo napoletano pulsante ed incerto- in cui l’autore viveva): Il gelso dell’angelo
Sangue sulle pietre calde, il gelso / nello stazzo ombroso le grida/ ascoltava e veloci dei giochi le vampe. / /
Salivano voci acri / nei pomeriggi del vicinato/ dalle madri su sedie impagliate, / ordinato fiume dell’amicizia. //
In quel senso di parole consunte, / nascosto, abitava l’Essere / e mia madre cantava al sole / operosa lenzuola sbattendo. //
Un angelo tenevano quelle foglie, //agitato nello stormire e ascoso:/ mi sollevò quando caddi dal muro, / sporgendo un martello nel vuoto./
Poi veniva luglio e riappariva / l’angelo broccato a guerriero d’argento, /
bianco fra i balconi avvicinati / da corda unta stirata al rito/ delle orazioni della festa del Carmine. / / Alto e serio, oscillante, / un fanciullo recitava sospeso / le lodi di Maria, con la corona / nel vuoto trepidante dei volti / sudati nella gioia del sacro / che alitava lì, fra noi esultanti. // Non so se l’angelo torna al gelso. / Altre fughe intrapresi e scacchi. / Ma la luce tracima alla mente/ se riappare la ruota dei morti: a denti rossi, sorridono / fra le sue larghe foglie, invitanti / passeggeri d’un’inviolata armonia.
Rileggendola mi accorgo che dovrei parlare del sacro; dovrei riferire della comunità del noi che invera il sacro e non lo spinge fuori come in una ‘metafisica concreta’ si sostiene; della immaginata ‘inviolata armonia’ che mai si compone nella storia sociale; dovrei chiarire lo scacco della nostalgia o dei rimpianti o delle limitatezze che la vita ci impose e dl capitalismo, la ricerca del denaro, che ci spostò di zona, modificando i nostri esseri, ma…
- Lotierzo, Poesie, Youcanprint, 2017