La riforma elettorale proporzionale ovviamente stenta ad arrivare. Il dibattito politico è caotico, le proposte in campo tante, l’unica bozza condivisa piena di polvere e dimenticata da tutti. Ma quali sono i veri problemi delle nostre elezioni e quali soluzioni possiamo immaginare per superarli? Proviamo a mettere in ordine nel tema più intricato di sempre.
Trovare la governabilità: è possibile con un proporzionale?
Sgombriamo il campo da un equivoco paradossale: la governabilità. Da anni si mormora che sia la legge elettorale a creare l’instabilità dei Governi, perché consegna maggioranze esigue. Troppe volte s’è detto in risposta che la governabilità è un problema politico e non aritmetico. Anche le maggioranze più larghe del mondo possono entrare in crisi: è un problema di coesione e non si risolve truccando i risultati delle elezioni politiche grazie a premi di maggioranza e collegi uninominali a uno, due o tre turni.
Però non ha torto chi sostiene che «non andiamo a votare per fare una foto al Paese». La rappresentanza è un problema importante, perché smorzare le voci dei partiti più piccoli frustra la partecipazione politica e indebolisce la salute della democrazia. Ciononostante è accettabile una formula elettorale che amplifica leggermente i rapporti di forza, premiando effettivamente i veri vincitori politici delle singole elezioni.
Il punto è: quale formula? È evidente che un proporzionale su base nazionale (simile al modello tedesco) non può soddisfare lo scopo, a meno che non lo si corregga con uno sbarramento alto. Anche questa opzione però soddisfa poco, visto che i partiti più piccoli rischiano di aggregarsi in sterili cartelli elettorali pronti al disuso (cfr. SCI, LEU, NCI, SA, RC…) che fanno entrare dalla finestra la massa di partitini rimasti fuori la porta. Quand’anche la soglia funzionasse, l’effetto collaterale è evidente: si rischia di lasciare milioni di elettori senza diritto di parola in Parlamento, al netto di eventuali diritti di tribuna comunque irrisori.
È chiaro a tutti che un premio di maggioranza, anche se assistito da un ballottaggio, altro non farebbe che esasperare la gara all’ultimo voto che inquina le nostre campagne elettorali. In più nessun premio e nessun ballottaggio sono garanzia di stabilità: lo dimostrano tutte le Giunte regionali e comunali, da sempre ostaggio di liti da cortile. In più è un istituto che distorce la proporzione voti-seggi meccanicamente: la logica del più forte può rovesciare il peso politico di enormi fasce del Paese per un nonnulla. Emette verdetti categorici, senza aumentare o ridurre il peso politico dei partiti più o meno in proporzione ai risultati effettivi dell’elezione.
Il maggioritario e le liste bloccate: quando la cura ammazza il malato
Forse è per questo che tornano di moda i modelli maggioritari, a un turno solo (come nel caso inglese) oppure con ballottaggio (sulla falsariga del modello francese). I sistemi maggioritari sono stati usati in Italia per imporre un bipolarismo storicamente inedito nel nostro Paese. La pulsione bipolare è indubbia in questi sistemi. Ma a dire il vero sembrano funzionare piuttosto male nella terra tricolore. Anzitutto hanno alimentato fenomeni di esasperato trasformismo dei partiti più piccoli, spesso trasmigrati senza vergogna da una coalizione all’altra nella logica del miglior offerente (cfr. i neosocialisti e i post-DC). In più i modelli maggioritari funzionano se i collegi uninominali corrispondo davvero alle comunità politiche locali: invece in Italia i collegi vengono ridisegnati in continuazione, col rischio di tagliarli su misura dei candidati. Quest’ultima tendenza dovrebbe esserci nota, visto che il collegio di Potenza-Melfi si trasformò miracolosamente, alle ultime elezioni, nel collegio di Potenza-Lauria…
Esiste anche un’altra grave controindicazione dei modelli maggioritari: e cioè che i cittadini non possono scegliersi il deputato o il senatore. È vero che in ogni collegio viene eletto il candidato più votato. Ma è anche vero che il voto non è mai personalizzato ma sempre dipendente dal partito che s’intende votare – questa tendenza è stata osservata statisticamente anche nei Paesi maggioritari come Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Se poi aggiungiamo che tutti gli elettori devono accettare a scatola chiusa il candidato presentato da ciascun partito, è chiaro che i margini di scelta si riducono moltissimo. E la sensazione di eleggere un Parlamento di cooptati resta.
In diversi altri Paesi europei si usano le liste bloccate che in Italia sono state introdotte dal Porcellum nel 2005. Quando qualcuno protesta e chiede che vengano reintrodotte le preferenze, la risposta è circa questa: le liste bloccate stroncano il clientelismo, la battaglia furiosa interna e consentono perfino di candidare la brava gente senza soldi né voti che altrimenti non riuscirebbe a entrare in Parlamento. È un’argomentazione sbagliata: il clientelismo si combatte con altri mezzi, la coesione interna al partito è una questione politica che non dovrebbe interferire con il diritto di voto di tutti, la selezione delle candidature non può restare in mano alle Segreterie. Non è accettabile, d’altronde, che i partiti possano cooptare i propri parlamentari in virtù del proprio ruolo: e questo perché attraversiamo una lunga crisi dei partiti stessi. I partiti non seguono metodi democratici e trasparenti di selezione dei candidati (cfr. centrodestra), quando s’impegnano a farlo, non sempre lo fanno davvero (cfr. centrosinistra), e quando lo fanno, spesso lo fanno molto male e in modo assai discutibile (cfr. M5s).
Preferenze, collegi piccoli e recupero dei resti: qualche spunto italo-spagnolo
Nella diatriba tra preferenze e liste bloccate, si potrebbe trasmigrare sul modello ibrido delle liste flessibili. Si tratta di liste bloccate in cui è possibile esprimere una preferenza, o anche più di una. I candidati che superano una certa soglia (stabilita di volta in volta dalla legge elettorale) bypassano i colleghi più avanti in lista per l’elezione. Ma si tratta di un modello complicato, forse percepibile come truffaldino dagli elettori italiani, abituati a sistemi più semplici. Un ritorno alle preferenze appare preferibile, anche perché di certo la soglia cambierebbe spessissimo, visto che le leggi elettorali vengono scucite e ricucite su ordinazione ogni pochi anni.
Ma se è evidente che i parlamentari devono essere scelti personalmente dal popolo, meno semplice è trovare la formula giusta con cui convertire i voti in seggi. Un’opzione in realtà c’è: il proporzionale su base territoriale, cioè sostanzialmente il proporzionale della Prima Repubblica. In realtà converrebbe avvicinarsi al modello spagnolo, in cui le circoscrizioni sono piuttosto piccole e perciò i partiti più grandi riescono a monetizzare più seggi. Questo sistema, se ben calibrato, premia i veri vincitori delle elezioni, perché un aumento di voti crea in proporzione un aumento più alto di seggi. Soglie di sbarramento adeguate, magari accoppiate ai diritti di tribuna, potrebbero essere un buon argine per evitare l’estrema frammentazione, a patto di vietare i cartelli elettorali (in Germania esiste una norma apposita). Importantissima sarà la scelta della formula: se si opta per un metodo dei divisori, la proporzionalità si riduce ma l’effetto premiante aumenta. Un sistema omogeneo come questo può essere un gran bene, anche perché in realtà è piuttosto semplice e ci risparmia dagli obbrobri terrificanti dei sistemi misti, mezzi proporzionali e mezzi maggioritari in quote sempre diverse, che danno al Paese l’impressione inquietante che il Parlamento si diverta a fare l’assemblatore di cocktail sperimentali (e spesso fallimentari).
A mitigare gli effetti disproporzionali della base territoriale può ovviare un meccanismo molto caro al Belpaese: il recupero nazionale dei resti. Certo, quest’opzione si può percorrere agevolmente solo se si opta per un metodo dei quozienti (ma ce ne sono di disproporzionali che si possono usare con la stessa facilità rispetto al D’Hont). Tuttavia qualche espediente per applicarla anche a eventuali metodi dei divisori si può sempre trovare. Per tacere di eventuali meccanismi di scorporo che penalizzino i partiti maggiori nella ripartizione delle briciole, che avanzano di qua e di là nelle varie circoscrizioni e che devono andare a vantaggio dei partiti medio-piccoli, svantaggiati dalla ripartizione territoriale.
In sintesi, il quadro è complicato ma una soluzione potrebbe esserci. Bisogna soltanto volerla.