Fare impresa nel Sud è proprio così impossibile?
RICCARDO ACHILLI
La teoria ci insegna che il territorio deve essere attrezzato di specifici fattori localizzativi di vantaggio, di tipo infrastrutturale, di servizio, di capitale sociale ed umano, di tipo regolatorio, di rapporti fra banca ed impresa, ecc. per sostenere una maggiore o minore capacità imprenditoriale, e che in questo il Mezzogiorno è senz’altro svantaggiato.
Eppure, la voglia di fare impresa nel Meridione c’è ed è forte: sarà forse anche per l’assenza di alternative (ovvero della possibilità di accedere ad un lavoro alle dipendenze) ma il tasso di imprenditorialità del Sud è più alto della media nazionale: 37%, a fronte del 30%. E, contrariamente a ciò che si pensa, l’incidenza dei fallimenti non è altissima: secondo Cerved, le imprese meridionali fallite nei primi sei mesi del 2018 è del 24,7% rispetto all’insieme di tutte le attività chiuse nel Paese, a fronte del fatto che le imprese meridionali sono il 33% del totale delle imprese italiane.
Non è quindi vera la teoria delle imprese meridionali “posticce”, poco affidabili, poco imprenditorializzate, magari aperte solo per fruire di un contributo pubblico: la verità è che al Sud si fa molta impresa, e spesso è una imprenditorialità seria, in grado di resistere nel tempo. Ma, ovviamente, c’è un aspetto problematico: e riguarda non tanto le imprese già esistenti, che come si è visto sono numerose e spesso anche più solide rispetto al resto del Paese. Il problema riguarda la fascia delle nuove imprese, quelle cioè appena nate da iniziative spesso giovanili: questa specifica area imprenditoriale, ovvero quella delle start up, soffre in modo specifico: il suo tasso di sopravvivenza ad un anno dalla creazione è, secondo l’Istat (anno di riferimento 2015), pari al 78,5%, a fronte di una media dell’81,8% nel Nord Italia.
E’ sulle start up, cioè le imprese più fragili, perché come noto nei primi anni di vita l’attività è tipicamente in perdita, che gli svantaggi localizzativi nel Mezzogiorno pesano maggiormente. Impossibilità di ottenere credito bancario basato sul progetto anziché sulle garanzie reali (è noto che ad inizio vita le imprese sono meno capitalizzate rispetto a quelle più consolidate), difficoltà di creare un mercato per il basso livello di domanda di quello locale e per la carenza di infrastrutture, assenza di strumenti di affiancamento al neo imprenditore con poca esperienza operativa, servizi reali scadenti se non assenti, sono tutti fattori che ostacolano la sopravvivenza delle nuove iniziative imprenditoriali.
Quali dovrebbero essere, allora, le caratteristiche di una iniziativa imprenditoriale meridionale in grado di resistere negli anni, dopo la sua nascita? In parte, prova a raccontarcele Futuro Italia, che in una ricerca ha mappato circa 500 imprese italiane leader, “campioni” del loro mercato di riferimento. 37 di queste stanno nel sud (anche se nessuna è in Basilicata, mentre la Campania, con 22 imprese, fa la parte del leone).
Quali sono le loro caratteristiche? La capacità di inserirsi dentro una catena del valore, cioè dentro una filiera, come fornitori specializzati e non generalisti, occupando piccole nicchie di tale catena, ma ad altissimo valore aggiunto, specializzandosi, curando la qualità, i valori sociali rispetto al territorio e l’analisi rigorosa del mercato e della concorrenza. Queste imprese adottano modelli flessibili, ma evitano la flessibilità patologica, quella che porta all’ipersfruttamento della manodopera ed a un rapporto negativo con il loro territorio.
Si tratta di imprese germinate o all’ombra di grandi presenze produttive, in qualità di fornitori di eccellenza (ad esempio nei poli Alenia campano e pugliese) oppure come spin off di distretti industriali (nelle parti del Tac salentino in rinascita) o, ancora, come fornitori di nicchia in filiere tradizionali dell’economia meridionale, agroalimentare in testa. In alcuni casi, reinterpretando tali filiera tradizionali in una forma imprenditoriale innovativa (come nel caso delle imprese retail della filiera dell’abbigliamento e della sartoria napoletana).
In sostanza, è possibile fare imprenditoria di eccellenza anche nel Sud, partendo però da un rapporto con il territorio, da una valorizzazione in chiave innovativa delel vocazioni produttive tradizionali e da un attento posizionamento di mercato. Se la politica farà la sua parte, la quota di “campioni imprenditoriali” potrà senz’altro aumentare.