
LUCIO TUFANO
Se il significato più ampio del folklore scaturisce da tutto ciò che è stato trasmesso oralmente per secoli, rientrerebbe in una tale definizione tutto ciò che la gente sapeva e faceva in connessione con la fatica dei campi, i giochi e le feste, i mestieri e le arti decorative, ed ogni aspetto della vita agreste, il ruolo delle forze soprannaturali nel mondo contadino, i culti religiosi popolari (distinti da quelli ufficiali, e alcune di quelle manifestazioni prescritte ritualmente e che hanno segnato momenti di particolare importanza nel corso dell’anno o della vita.
Alcune feste sono in relazione all’anno solare, come quelle con falò di San Giovanni (23-24 giugno), altre connesse al calendario ecclesiastico, altre alle attività agricole e che variano con il clima e con i prodotti principali di una regione: di qui le feste della primavera, i costumi del raccolto, le celebrazioni di mezza estate e di mezzo inverno, tipi di danze popolari, spettacoli di pantomima e costumi che comportano l’assunzione di maschere animali, culti della fertilità, venerazione del sole, culti della vegetazione … Antropologi come Manuhart e Frazer hanno dedicato una particolare attenzione a costumi collegati alla coltivazione dei cereali come antico culto della fertilità.
«Prima di iniziare l’aratura, una palla di rami di biancospino veniva bruciata nel campo prima dell’alba di Capodanno, per espellere i cattivi spiriti ed impedire la malattia del frumento detto “carbone del grano”; confezionata già dall’anno precedente, rimaneva appesa come portafortuna in casa per tutto l’anno»
L’uso del fuoco per distruggerla, è in riferimento alla convinzione antica ed universale del potere del fuoco per espellere i mali di origine soprannaturale. Nelle feste di mezzo inverno o di primavera il fuoco era il fenomeno centrale. I falò pagani che venivano accesi con valore simbolico per anticipare le giornate estive, promuovere la fecondità e purificare gli uomini ed il bestiame, furono accesi, dal medioevo in poi, in onore di san Giovanni, il 24 giugno. I costumi relativi a questo tipo di feste implicano tutto il fuoco, in una forma o nell’altra; alcuni si servono di piante magiche o medicinali, altri furono associati all’amore, al matrimonio ed alla speranza della prole.
Essi continuarono fino al novecento e nel corso di esso ed identificarono, nella vigilia di san Giovanni, un giorno in lettere rosse nel calendario dei contadini.
Anche la tradizione della sfilata dei turchi è sorretta da una forza spirituale, dovuta alla devozione per il Santo Patrono. La comunità potentina crea, conserva e tramanda espressioni, forme etiche ed estetiche, ad essa congeniali. Perciò le feste di maggio hanno come finalità quella di cancellare i guai ed i peccati dell’inverno e di auspicare, predeterminare e preassicurare l’abbondanza e la prosperità per l’estate che subentra.
Perciò un fantoccio va bruciato assieme alla iaccara, quasi un re dei saturnali e del carnevale, allo scopo di eliminare ogni forma di male.
Le iaccare si installano nei luoghi giù larghi … fari fiammeggianti della notte. In ogni cuntana, in ogni largo e lungo la Pretoria si accendono decine e decine di fanòi (ammassi di sarmenti, cannucce, scroppi, ginestre secche e verdi), in guisa che la città pare andare a fuoco. Una serata efferata dai bagliori rosso-sangue, “scoprifuoco” in cui tutti escono dalle case per la irrefrenabile voglia di partecipare. Valletti, scudieri, turchi e gran Turco fumano il sigaro alla “smargiassa“. Lungo i lati della piazza i cantieri … su di essi si inchiodano i simboli del bosco, una pianta di agrifoglio, di fronte un largo ramo di abete, e tra un cantiere e l’altro, festoni di edera … un mistico apparato di verde. I mulattieri, ebbri e tiranni delle cavalcature e delle finestre. Primo, unico ed indiscusso modo di essere attori, esibitori di una malcelata potenza, la “marziale” traversata nella città, despoti dell’aria e del vino, corsari della montagna entrati per una sera nella città, con nave, carro, gualdrappe e finimenti. Sono i diavoli del grano e delle biade con il gran Turco o Belzebù. Scorreggioni e sguaiati, a volte immobili, a volte vispi, irriguardosi e maliziosi, spaventano le fanciulle accorse ad ammirarli. Uomini delle querce e dei faggi, delle cerze, che scendono da Sellata, Cerreta, Faggeta e Pallareta per infliggere strappi alle briglie e alla seta. Ecco qui i rituali che garantiscano i mezzi del sostentamento.
Senso di appartenenza, cordialità ed eguaglianza, la Sfilata rappresenta una produzione sociale estremamente importante. Si può scherzare con i padroni, con i borghesi e con le autorità; si compiace il potente per lo spettacolo e il brio: i ruoli sono intercambiabili e mimetizzano ceti e gruppi sociali. La sua articolata dimensione consente una trasgressione delle norme limitata alla sola serata. I riferimenti sono forti: vi è l’irruzione di sembianze, timori, aspettative, preoccupazioni e linguaggi, espressioni connesse all’amore e alla funzione escrementizia dei quadrupedi. Una trasgressione di massa in termini di cibo e di bevande. Durante la Sfilata si può parlare a chiunque.
Le donne sfriculèiano e facilmente con esse si possono scambiare complimenti e sfottò.
È quindi desumibile dal fracasso, dalle torce, dagli spari, dalle foschie iniettate di vividi bagliori, dai volti tesi, dalla prepotente energia dei gesti e delle braccia nude, dallo energumenismo globale dei petti e delle figure, dai muscoli contratti, dalle rudi connotazioni somatiche, dagli sguardi truci, dagli zigomi sporgenti e qualche faccia prognata, una rassegna della esibizione semita degli uomini di fatica, i mulattieri dell’Arioso, la carica contestatoria, la boria, la grinta spavalda dei mitici uomini che vengono dalle boscaglie, attraverso i vicoli e le grondaie, la fuliggine dei comignoli, nel tripudio, e ingoiano fumo di tabacco e di legna, brandiscono fiaschi e le spade, gustano, fiutano e aspirano odori, polvere e sudore, aria impregnata di bagliori di fiato nella macerazione dei pipli. Pandemonio di batterie, bombe e mortaretti. La rutedde bolognese si frantuma in mille girelle concentriche e si dà fuoco a pupe e fantocci, bengala con piogge pirotecniche. Carcasse e palloni di diversa grandezza e figura e le bande si sfiatano in uniformi bizzarre e pantaloni bianchi, sciasse di colore e cordoni, spalline sfioccate, sciabole e spadini, pennacchi rossi e verdi sui caschetti.
Ecco i turchi, prima catturati, poi svincolati, liberi o conquistati dalla tregenda. Il gran turco sonnecchia la sua tregua. È pace stasera con il governatore. Distratto anche il tiranno-gabelliere. Le donne compiaciute: “me pare nu tùurche …!” Voglia di mare e di barca, il carattere agrario è nella spiga più alta, la pannocchia più rossa. Tra frasche e fumo acre, crepita l’incendio. Il nerofumo si ritrae sulle facce dei bambini che hanno voglia di turcheggiare, di boccheggiare. Il mulattiere ha tracannato lunghi sorsi di fiaba, di vigna, in una sola notte.
I camini accesi e i riverberi del fuoco sulle pareti delle case hanno dato luce, significati ed infervorato il racconto, eccitata la fantasia dei vecchi e dei bambini, nelle lunghe e violente stagioni del “generale inverno”. E gli inverni produssero l’assuefazione alla legna e al carbone, alle fascine e a tutto ciò che derivava dall’attività delle carbonaie e dei legnaiuoli. Ecco perché, nella sera del 29 maggio, i carbonai ed i mulattieri, mani scure e rattoppi di indumenti, sono indaffarati attorno ai fanòi. Anche le donne, i nani e i gobbi, si agitano, schiamazzano e giocano nelle strade della città.
Come l’indovino Anfiarao, i vecchi demonòmani hanno tratto gli auspici dallo strepito e dalla direzione del fuoco, e, simboli delle energie occulte, il carbone ed il fuoco rappresentarono la forza del sole sottratta alla terra. Le strade e le piazzette sono quindi invase dalle esalazioni e dalle fumée, nella foga di scacciare gli spiriti del male. Così esprimono la loro carica propiziatoria alle querce e al bosco, e torce, tizzoni, fumo e fanòi sono la cosmesi della festa. Di qui la spontanea mobilitazione della gente che si riversa nelle vie in preda all’emozione per l’inverno che va e per l’estate che subentra nel fiorire degli alberi e delle ginestre. È una festa della campagna.
Si lasciano l’ansimare delle mulattiere e il respiro asfissiante delle carbonaie per guidare i muli e i turchi in devozione di san Gerardo. Baldorie e “gaudi” del popolo: la Sfilata dei turchi si tramanda, si ripete, nei particolari che l’hanno sempre caratterizzata, e la coreografia di essa è nel pullulare dei suoi fuochi. La iaccara, grande falò, canne affasciate attorno ad una trave lunghissima …” contadini giovani e robusti la portano sulle spalle. Sopra vi sta uno (gnomo o satiro) vestito a foggia di buffo o di pagliaccio, che tenendosi diritto ad un reticolato o disegno di canne, su cui è posta tra foglie e fiori la fiura di San Gerardo, grida, declama, gesticola e dice a sproposito, eccitando la gente a guardare e ridere …”