LUCIO TUFANO
Dal frasario vigente della stazione e del mercato, dalle imprecazioni dei facchini dei magazzini e del Consorzio, dei grossisti, dei muratori e artigiani, dagli improperi dei trainieri e dei cocchieri, dalle storie scritte e che si desumono da ogni vecchio muro, da ogni vecchia casa, dalle cappelle monumentali o semplici del cimitero, dalle insegne merciaiole, dalle botteghe e dalle cantine popolose, ai capannelli che hanno riempito le piazzette di voci, di motti e richiami, il mondo urbano e suburbano della città, dalle suppliche concertate dei preti e dalle massime dei galantuomini, alle giaculatorie blasfeme e delinquenti, dagli stadi millesimali di epoche e di anni, dai giorni e dai “taluorni“, dalle guerre e dagli eventi più minuti e minimali, ecco che nasce la commedia orale e scritta, quella che ricompone i frammenti della nostra comunità tra assilli e perplessità, dubbi del vivere, del morire, del venir meno, dell’amore e del rancore, delle piccole/grandi passioni di popolo e di singoli.
È nelle vie e nelle piazze che si scrivono i titoli, i personaggi, si annuncia il teatro, si avverte il pubblico della commedia locale e si indica la data e l’ora delle rappresentazioni in cui tutta la filosofia potentina viene illustrata.
Una cultura che privilegia più che l’autore dei testi, della sceneggiatura, il contenuto e la trama del racconto, il genere che ci permette di cogliere significati e confronti tra scena e società.
È nei titoli e nei manifesti che si annuncia un’operazione teatrale: cuntane e cuntagnuole, ribalta di vicoli, sipario della città e della campagna.
Veniamo in contatto allora con quegli aspetti secondari, attraverso i quali si leggono i fatti e gli avvenimenti che hanno caratterizzato le epoche e si colgono i dati, la storia del costume, la vita di coloro che ci precedettero, gli elementi anche concreti e più disparati della mentalità. Sintesi di una società che vive, opera, in cui si vince o si è emarginati, espressione dell’attualità o dei tempi remoti, sempre pertinenti ad un mondo che, ruotando vorticosamente, tramanda regole e principi, modi di dire e di fare: Lu cuntratt’ d’ matrimonio, Nu scherz’ d’ carnuval’, Mbruoglie a lu pagliar’, Visceledda, Avenn’… putenn’… paenn’…, La prima d’aost’, L’angelo d’bona nova.
Né napoletane, né baresi sono queste carte, strumenti notarili della tradizione casalinga, reperti del gergo e dello sfottò nostrano; sono carte di Potenza, lettere, episodi del sottomondo urbano.
Gigino La Bella non è il nostro Eduardo: l’ironia ereditata dai barbieri di via Pretoria non è napoletana, né barese. Essa è più lancinante e pungente, il sarcasmo più impietoso. Proviene da una mai attenuata invidia di classe, una rivolta inappagata del povero contro il mondo, contro l’usuraio e il prepotente, contro l’ingordo e l’avaro, l’ignavo e il vile.
Ed è anche vero che nelle operazioni di rappresentazione si devono cogliere quegli elementi legati ai
larghi fenomeni del sociale, che sono alla base e determinano i significati delle nostre azioni collettive.
1949 – Teatro Stabile “Processo al teatro”: Gerardo Crisci e Rocco Tulipano
Il linguaggio tratto dalla tradizione orale, quel suono dialettale che caratterizza la battuta, gli aspetti comuni del nostro gez’, venez’, è giù, è venù, chi fai d’uocche? … stu ciuote’! … sta nasca tesa! … sono la linfa dialettica del nostro teatro.
È così che una sommatoria di mimiche, di gesti, di figure, di voci stridule o poderose, di vocioni e vocine, espresse nel codice locale delle allegorie e delle metafore, dei monologhi e dialoghi, degli apologhi, fanno lo spettacolo.
Ecco perché gli attori vanno apprezzati specie quando sono anche autori del loro teatro.
Gigino è uscito dai vicoli, da “spaccaputenza” dalle “traverse” di via Pretoria, dal quelle di Portasalsa, da Vico Addone e da San Luca. È uscito dagli antri grigi, dai sottani di San Michele e di Largo Barbelli, ha compiuto “il giro di Potenza” dopo averne filtrato la mordace ironia, l’invettiva e la vis comica, il grottesco e la goffaggine dei figli contadini, dei padri, dei nani e degli ossuti, di altri cittadini sartori e scalpellini, barbieri, fattorini ed impiegati, di commercianti assurdi e scanzonati, di tutte quelle maschere della città di un tempo, della “vis putenzesa“, della sazietà e dell’appetito, della gioia carnascialesca e del dolore quaresimale, del sano familiare e dell’eresia del peccato, del profano pubblico e privato.
Ha la mimica di quelli che scolpirono le sconfitte nei caratteri somatici, la pazienza, la rassegnazione, la smorfia incredula, la voce e le mani, il modo di gesticolare, di camminare, la nostra coscienza, la dignità e la miseria. Rivivono in lui le figure antiquate e moderne del potentino che, per quanto abbiamo constatato, per ciò che ricordiamo, per quello che ci hanno raccontato, erano caratteristiche di un mondo in cui le realtà e i comparti di città-campagna erano ravvicinati e spesso osmotici.
Si tratta insomma delle botteghe, dei mastri, dei semplici, della loro osservanza, della loro sregolatezza, della subordinata obbedienza ed anche della rivolta; condizioni sociali ed economiche di un popolo che nell’ira, nella rassegnazione, nei sentimenti, ha tessuto di aneddoti, di usanze e concezioni il proprio presidio di austerità, di sobrietà, sicuro patrimonio e gloria della fiera, conformista, nostra follia di comparse.