
LUCIO TUFANO
I monaci delle badie, gli eremiti dei monti, bollirono i lauri, le castagne, le eriche, i decotti, le patate ed i fagioli degli orti. Il vino del Vulture dissetava le sudate transumanze. I massari di campo portavano sulle tavole bianche delle badesse il ravanello. Il diavolicchio, il cirasello peperoncino, tutte le ricette da papiro delle madri ostesse.
Alle taverne del postiere sostava il cavaliere, il soldato, il gendarme, l’archibugiere, il trombettiere. Il sogno del trainiere era di rovesciare le botti nelle fiere. Il rosmarino sul cappello, il mattutino, lo spavaldo del drappello, le simbologie della cucina.
C’era nei piatti la campagna. Il condimento del piatto: l’acre, l’aspro, l’acerbo, il salato, il forte, il piccante. Le salse si susseguono in una sensuale e primigenia alchimia. Il rancio del soldato, il prelibato pasto del barone, il boccone fuggiasco del famelico attentatore delle querce, la sua fame selvatica, il suo agguato notturno, alle CrocelIe, al Cupulicchio, al Valico dell’Alata.
Sono pietanze sobrie, mano dopo mano condite dalle attese, dalla fretta, dalla paura, dall’intensa fragranza delle boscaglie, dalle roventi mietiture, dalla trepidazione, dalla disparata noncuranza delle droghe, dal presapore delle tregue, dalle pause, dall’assoluta assenza di sofisticherie.
Il piatto di terra contiene le essenze dei tuberi, le radici, il sapore del buio e dell’umido: le povere stagionature del gusto, le scorze dei tronchi, le rucole dei monti, le zuppe di licheni.
Nelle balze di sole e di vento, nei terrazzi terrosi delle coste, nei fossi intrisi dai rigagnoli, nei fondi muschiati dei muretti, nei canaletti di viottoli e mortelle s’alza in vapori il frazzo delle stalle, si ordiscono le storie merlate delle verze.
Precipita il sapore diluito nella scodella ribollita, il buglione, i senàpi, i tadd r’cucozze, la scottiglia di spunz’aii, i testaroli dell’acqua cotta. Mense degli orti, stracariche di gusto di terra e di foglie, sacro pinzimonio di radici a fittone e cime a fasci.
La fava, che proviene dalle sponde del Mar Caspio, riempie le bocche dei pastori e degli aratori, manda in deliquio le monache del convento. Una minestra di fave cavalline, d’inverno, tubetti e fave di Turingia, d’estate, con pane e cipolle è condita di “Vulgaris” per l’aristocratico ortoghiottone che ama invece decorare i pasticci di manzo e di reina, i teneri manicaretti di uccellini, gli intingoli alla salsa calda, i tortini alla pisana, la selvaggina all’agreste, il pollo alla diavola, la tortiera di coniglio, la triglia alla livornese con insalata di borracina, luppolo e scorzanera, maggiorana e noce moscata, con peonia ed issopo.
Commestibilità della radice, l’intera famiglia delle “cicoriacee”, selvaggia erratica di Plinio che non gustava la amarezza delle foglie. Nelle cultivar degli antichi greci si chiama seris e tra i latini intuba, oggi Seriola, la varietà costosa, più bianca delle nostre indivie: la scaròla.
Il cavolo bianco dello sceicco ha la sua corte di patate in ciottoli, rombi di Blanchard, barbabietole Mammouth, Brassiche raparapifere, sfere bianche di Pomerania, carote a coda di topo con colletto verde, spinaci, lattughe, vitamine. Il cavolfiore è figlio del corsaro, barbabietola e navone, asparago e peperone, fragole al limone, fondine di clorofilla e sentine di sapore, la debosciata orgia dei sedani.
Il più ricco è il pomodoro, con origano o basilico entra nelle stagioni delle conserve, bottiglie, barattoli, nei grappoli rotondi appesi alle traveggole di cielo. Primaticcio orgoglio del mercato, sciabola dai piselli nani, bianchi e verdi riempipanieri, piatti del principe Alberto predisposti a corno di Montone, piselli cappuccini, pernice a macchie scure o con punteggiatura rossoporporina, cece bianco, cece nero, cicerchia, vecciolo ingrassabue, lupino giallo-azzurro, veccia di velluto che pizzica la lingua ed il palato.
Ma la spugna del corpo s’inzuppa nei bivacchi, straluna nel sole di luglio, nel grano coricato, nelle cicale assordanti, nelle pause, nei cammini tortuosi, peregrini, affardellati e si disseta di acetosella, di agretto, di cardo, di finocchio, di cetriolo.
Le miniere di sale nel sudore dei trattori e i tratturi assolati sprofondano la sete nella fonte dei cocomeri. Chi va piano va lontano, gira, gira l’ortolano. Sobrietà degli orti, arterie e vene, linfe e colori, teatro e fiaba nei carciofi, storia impressa nelle malinconiche cipolle, nel calore fumante dei paioli, nell’acqua che bolle i cavoli brontolosi, la menta fragrante, i brodi impregnati di salvie e prezzemoli, di “acci” e midolli.