Cosa è un romanzo storico : la vita fra Mingher e Istanbul
di Antonio Lotierzo
Orhan Pamuk, scrittore che scoprii con Istanbul, premette al romanzo due frasi di Tolstoj e di Manzoni, per indicarci le linee maestre di questa scrittura: si scrive per mettere ordine nelle memorie ma anche per scegliere se riflettere sui pericoli penosi che agitano le coscienze, oppure spostano l’attenzione su fatti piacevoli in tempi di peste, come nella cornice del Decameron di Boccaccio. Noi possiamo leggere questo romanzo-fiume grazie alla fedele e godibilissima traduzione di Barbara La Rosa Salim, che connette lingua e significato, esplicitando forme delle allegorie cui la trama rinvia ( dal nazionalismo, spesso, la storia ci spinge verso un’autarchia personalistica). Pamuk qui scrive, oltre un secolo dopo i fatti, ‘sia un romanzo storico, sia una storia in forma di romanzo’; il racconto trae spunto da scavi archivistici e da centotredici lettere della principessa Pakize che descrive l’epidemia di peste del 1901 ma si diffonde nella ricostruzione della guerra del Giappone con la Cina del 1894 e degli interventi colonialisti di inglesi, francesi e tedeschi, nonché della tremenda e suicidaria vita di corte, dell’interesse del pascià per i progressi della medicina in Europa su batteri, vaccini e laboratori ma anche sulle preoccupazioni per le malattie infettive che stavano arrivando dall’Asia e dalla Cina. Il lettore conoscerà il positivista Bonkowski, chimico e farmacista commissario alla Sanità pubblica e, poi, la sua fine farà prendere anche una piega di giallo all’intreccio delle misure della quarantena, dei cordoni sanitari e lazzaretti, dell’uso della calce, della caccia ai ratti (portatori del bacillo come aveva scoperto A. Yersin) e dei falò degli oggetti infetti e delle resistenze che i negazionisti ed i musulmani mostravano nel rifiutare le misure imposte, molto più dei cristiani. Molti rifiutavano la chiusura dei negozi, il fermo delle attività e dell’erboristerie e delle coltivazioni di rose e dei profumi che avevano arricchito la borghesia greca (come i Nikiforos) e non volevano consentire l’irruzione di medici e militari nelle case private sia per sanificare che per prelevare gli infermi. Nel romanzo non manca l’amore e non solo quello fra la principessa Pakize e il dottor Nuri ma si dichiara il segreto della felicità di coppia, che risiede nel piacere che entrambi provano nel fare l’amore e nell’appagamento sessuale che sperimentano (p.20). Intrecciata è la storia di Zeynep e Kâmil.

A Mingher si bruciano oggetti infetti
Descritta ed ironizzata è la cultura folclorica che, con atti isterici, invitava a puntare dei ‘benefici’ fogli di preghiere verso il corpo ammalato e indirizzare in aria gli amuleti verso la direzione del demone, ripetendo per diciannove volte il gesto al fine di allontanare il flagello. Gli amuleti venivano, inoltre, portati al collo e toccati con l’indice destro per ottenere buoni risultati. Oltre ai talismani, si ricercavano santoni, le cui ‘benedizioni’ si ritenevano più potenti del male. Agli ammalati, con bubboni e febbri, veniva servita per alimentazione una scodella di tarhana, una zuppa di grano fragrante e profumata al peperoncino rosso. Altre pagine sono dedicate ai pellegrinaggi ed alla frequenza di chiese e moschee che diffondevano il contagio; alle rischiose pratiche dei funerali, ai complotti messi in atto con la sostituzione di veleno per topi, inodore ed insapore, alla farina per dolci ed agli avvelenamenti con arsenico.

Abdul Hamid II voleva che si introducesse il metodo di Sherlock Holmes nelle indagini, basandosi sulle prove concrete e sulla responsabilità individuale delle azioni, sultano lettore di romanzi gialli introdusse l’epidemiologia, svelando che le epidemie non erano diffuse dall’aria sporca e umida né dalla rete fognaria bensì dalla rete idrica, per cui era obbligo bollire sempre l’acqua prima dell’utilizzo ( come si evinse anche dal fatto che gli operai che lavoravano nelle fabbriche di birra non si infettavano, dato che bevevano solo l’acqua bollita in fabbrica). Ma Abdul era anche paranoico e diffidente, verso tutti, possibili eredi in primis. Aveva appoggiato la Società dei farmacisti che si opponeva alle erboristerie tradizionali dove si trovavano spezie, polveri, paste, piante e radici ma non venivano ispezionate sostanze come la codeina, l’arsenico, l’assenzio, il veleno per topi, il fenolo, l’etere, la morfina. La quarantena non era seguita; il contrabbando proliferava; il fatalismo era un’illusione quotidiana, per cui pur avendo coscienza del pericolo incombente il fatalista non prende precauzioni in quanto confida nella protezione di Allah. Lo sceicco ripeteva il versetto:- Oh Signore, non darci più di quanto abbiamo la forza di sopportare!-. Intanto ‘il malato d’Europa’ crollava, l’impero turco si disfaceva davanti ai nazionalismi musulmani non turchi, come arabi, curdi e albanesi; le Grandi potenze accerchiavano l’area con le loro navi da guerra. Si rinvia il lettore alle storie dell’isola di Mingher; alle confraternite che gestivano la lana ‘immacolata’; alle vicende politiche del governatore Sami Pascià (destituito-trasferito ma ancora operoso in Mingher fino alla morte) ed ai suoi amori deliziosi con Marika; alle azioni della banda dei ribelli di Ramiz; al maggiore Kâmil fondatore della mingherianità; ai sermoni che rinviano al dilemma e confronto fra scienza e religione. Infatti uno sostiene: -Siamo servi di Allah e del suo profeta. Dobbiamo fare quello che Allah comanda. Non vi è futuro per un popolo senza la religione-. Ma altri rispondevano che dobbiamo affidarci alla scienza medica. Un bivio che esige una sintesi, che palpita ancora davanti alle nostre coscienze. Con ironia divertente Pamuk inserisce incisi come ‘gli storici concordano’ ma poi provvede con la sua fantasia a modificarne la storiografia; vero incanto è la descrizione dei paesaggi, notturni al meglio, sotto il ‘quieto chiarore lunare’, dei bastioni del castello di Arkaz, della sagoma incombente della montagna vulcanica Bianca, del mare incantevole fra gialli nebbiosi e fumi azzurri, dell’odore delle rose, dei tigli, dei pini e delle alghe secche, dei giardini che colorano tutti gli ottanta capitoli di una ‘favola tridimensionale’ in cui ‘profondi e ineffabili’ risultano i legami fra realtà e rappresentazione. Infine Pamuk, sempre, rimarca quanto siano ‘profondi e misteriosi’ i legami che ‘esistono tra la storia e gli oggetti’, tra le nazioni e la scrittura. E cosa altro è il suo ‘museo’ istanbuliano se non una precaria costruzione contro l’incombente e mortale perdita degli oggetti che accompagna ogni morte?
Orhan Pamuk, Le notti della peste, Einaudi, To,pp.707,e.25,00
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