RICCARDO ACHILLI
Ogni tanto, nel dibattito sul Mezzogiorno, spunta la proposta delle gabbie salariali. Che però esistono già. Le retribuzioni lorde orarie per addetto del Sud sono appena l’83% di quelle del Centro Nord. Hanno risentito maggiormente della crisi: in termini reali, scontando l’inflazione, fra 2008 e 2015, sono diminuite del 3,3%, mentre al Centro Nord sono cresciute del 2,4%.
Ciò si è riflesso sul tenore di vita delle famiglie: i consumi di quelle meridionali si sono ridotti, fra 2008 e 2017, sono diminuiti del 9,7%, mentre nel Centro Nord sono rimasti fermi. Non solo il ruolo produttivo del Sud, oramai al palo dall’assenza di grandi investimenti produttivi in entrata (gli investimenti produttivi al Meridione, ci dice la Svimez, sono calati del 31,6% fra 2008 e 2017) ma anche quello come mercato di consumo finale, che aveva sostenuto le imprese del Nord negli anni Ottanta e Novanta, si è dileguato. Oggi il Mezzogiorno è un deserto nel quale i redditi, colpiti da una composizione settoriale dell’economia particolarmente concentrata su settori a basso valore aggiunto (costruzioni, servizi alla persona “poveri”, commercio tradizionale) aprono la strada a un ampliamento delle diseguaglianze molto grave. Oggi, nelle regioni meridionali il 10,5% delle famiglie è in povertà. Quasi il 16% dei residenti. I redditi sono così bassi, che la povertà colpisce anche chi lavora: il 7,2% delle famiglie in cui il capofamiglia è occupato è in povertà.
La povertà ha anche una dimensione prospettica: se nel Mezzogiorno si concentra più del 56% dei NEET (ovvero giovani di età compresa fra i 15 ed i 34 anni che non studiano e non lavorano, quindi non hanno nessun futuro) ciò significa che, anche in condizioni ideali di ripresa della crescita, dell’occupazione e del lavoro, il Sud si porterà dietro, in futuro, un carico di persone che non avranno i requisiti per poter accedere al mercato del lavoro, e saranno degli assistiti perenni.
Cosa fare? Semplicemente tornare a fare programmazione, con una logica non concentrata sui fattori di competitività dell’offerta, come i fondi strutturali hanno cercato di fare, in modo fallimentare, per tutti questi anni, ma con un occhio anche alla domanda. Tornare ad essere keynesiani: investire in infrastrutture, basiche ed avanzate, fare interventi di uscita dalla povertà, perché il segmento più povero dei consumatori è quello che ha la propensione marginale al consumo più alta, e quindi la maggiore capacità di alimentare crescita. Sapendo però che si sono segmenti troppo lontani dal mercato del lavoro per essere realisticamente reintegrabili, e per quei segmenti servirà un reddito di cittadinanza senza condizionalità, come mi auguro che faccia questo Governo.
E poi cambiare il modello produttivo, attraendo investimenti in settori innovativi ed avanzati, dove i salari sono più alti rispetto ai tradizionali settori di specializzazione produttiva del Meridione, con un vincolo specifico di assunzione di giovani laureati meridionali, le cui università vanno riqualificate, concentrando le risorse pubbliche sulle eccellenze di ricerca di base ed applicata, e non distribuendole a macchia d’olio per sostenere piccoli atenei inutili e dipartimenti universitari che non producono ricerca. Riqualificare servizi pubblici essenziali, come la sanità, l’assistenza sociale ed agli anziani, i trasporti, i servizi all’infanzia e le scuole, perché creano occupazione sul territorio, oltre che diritti di cittadinanza reali, e non astratti, di cui il Sud sente il bisogno. Puntare sulle eccellenze del territorio meridionale, per fare turismo di nicchia e di alto valore aggiunto, e non pacchetti di turismo di massa che creano solo schiavitù, per fare investimenti nella green economy, per sviluppare filiere produttive nell’agricoltura, nell’energia, nell’utilizzo produttivo della forestazione, nella tutela del rischio idrogeologico e sismico.
E per questo servono piani nazionali di sviluppo, con una individuazione di obiettivi nazionali, cui piegare i fondi europei, e non, come avviene sistematicamente all’inizio di ogni ciclo di programmazione dei fondi strutturali, una semplice scelta fra opzioni di intervento preconfezionate a Bruxelles, impacchettate dentro un Accordo di Partenariato, valide per l’Italia come per la Lituania, la Grecia o la Germania dell’Est.