LUCIO TUFANO
La miseria degli anni trascorsi, quelli della guerra e dell’immediato, è ancora una condizione quasi generale per il sottoproletariato e per i contadini, ancora rappresenta una forte remora nei vecchi, negli impiegati di basso livello, non solo per la mancanza di propensione allo spendere, per il timore della cambiale, della tratta e della fattura, ma anche perché tutto ciò che non è necessario è considerato un lusso e tutto ciò che non è produttivo è inutile e dannoso proprio per l’antica vocazione al risparmio. Il denaro va risparmiato! Ed è in voga presso le famiglie contadine e del ceto popolare urbano il vecchio modo di nascondere i soldi “sotto il mattone”, o, per i piccoli artigiani, le maestre elementari, gli uscieri e gli applicati, accartocciare le banconote da mille e diecimila in un rotolino da riporre in fondo al baule, in un angolo della biancheria o in un tiretto del comò. Quasi l’antico feticismo del soldo per cui spenderlo è doloroso. La vecchia mentalità disapprova l’acquisto a rate considerandolo rischioso; intanto cominciano ad esercitare la loro suggestione, sui gusti e sui desideri, le scarpe nuove di Ottavio “L’americana” e di Boccia, i capi di abbigliamento di Nicola Lamorgese e di “Diana”, le pelletterie e le camicie, un cappellino dalla modista Rosa Pietrafesa, e tutto ciò che espone nelle sue vetrine l’Industria Calze di Petilli. I cappotti di Barra e gli impermeabili “San Giorgio” di Ignomirelli cominciano a far digerire la cambiale, ma l’apparire sul bollettino dei protesti è infamante.
È soprattutto la mania di possedere i nuovi articoli e i prodotti di una industria che ormai ha ripreso i suoi ritmi e produce beni diversi sempre più necessari ed imprevedibili per l’area vasta del consumo anche popolare.
La spesa si oppone man mano alla volontà di fare economia e una nuova cultura, quella dei “soldi che vanno e vengono”, si fa strada nella soddisfazione di possedere l’automobile, la cui novità ripaga la sofferenza del debito contratto per ottenerla.
Nel corso del decennio (1951-60) l’acquisto delle cose sarà cosi forte da superare ogni ritegno, e si prenderà tutto anche parte del reddito a venire. L’automobile è essenziale per tutta una serie di motivazioni. Così si chiedono prestiti alle Banche, si fa il quinto dello stipendio, pur di possedere una macchina.
Le commissionarie espongono allettanti modelli e formulano allettanti proposte. La pubblicità esercita un continuo incitamento all’acquisto. L’utilitaria interviene in aiuto delle possibilità più esigue.
L’automobile rappresenta la evoluzione ed anche un po’ la scalata sociale, soddisfa in un certo senso l’istinto di primeggiare, la volontà di potenza. Ed è proprio nella potenza del motore e nella precisione meccanica che il suo guidatore si compiace di correre ma anche di saper disciplinare i propri impulsi, la consapevolezza delle proprie responsabilità, l’osservanza delle regole di guida e delle norme del codice della strada.
L’automobile, alla fine degli anni ’50 è il simbolo più concreto di un mondo più evoluto e voluttuario.
Le spider di Federico Sciaraffia, dell’avv. Piscopia e di Pinuccio Somma, di Filippo Lancieri, dell’avv. Aldo Morlino, del notaio Marsico e di altri, sono la espressione più certa dell’amore alla libertà e all’automobile.
Un lungo graduale processo di promozione simultanea della società, del cittadino e della pubblica cosa, in sincronica colleganza tra di loro. L’aspirazione estesa a tutti di promozione borghese o piccolo borghese, di abbandono delle antiche condizioni proletarie o artigiane o contadine nel convincimento sempre più vasto che lo stipendio è una conquista, quasi una condizione di rendita. Poter essere impiegati significa annientare l’alea del “mettersi in proprio” in cambio di uno stato di certezza, di un potere d’acquisto sicuro e duraturo che consentirà l’avvio di quel “negozio giuridico” possibile, l’acquisto, con patto di futura proprietà, a rate, dell’oggetto d’amore, l’automobile o degli altri oggetti utili a sé e alla famiglia, come gli elettrodomestici e il televisore, non esclusa la casa dove poter abitare con l’aiuto dell’Ina-case o dei vantaggi che comporta il costituirsi in cooperativa. Si fa strada quindi il convincimento che l’impiegato è più protetto che dipendente, in una città dove il politico, in cambio del consenso di numerose famiglie e di intere zone, è disposto ad accendere ipoteche di amicizia e di clientela durature. L’operaio è meno asservito al padrone rispetto all’appartenenza al partito o al sindacato, meno degradato che promosso. Sempre più le nuove generazioni si distaccano dall’idea della intrapresa e si liberano dall’incubo del rischio per guadagnare in benessere ed in sicurezza più garantita, ma essenzialmente in libertà.
I tempi nuovi acuiscono gli sforzi individuali e gli intenti verso il possesso dell’appartamento e di tutto ciò che concorra al comfort, tanto da far coincidere l’impegno pubblico di servizio e di rendimento del lavoro nell’ufficio o nell’azienda con la propria vita privata. Si fa avanti la civiltà del weekend, si riducono gli orari di lavoro (orario unico) nella propensione a disporre di sempre maggior tempo per i propri interessi e per il tempo libero. Alla vecchia rivendicazione di raggiungere maggiore libertà attraverso il lavoro, si sostituisce quella della libertà guadagnata sul lavoro. È così che negli anni che seguono mentre si attesta uno standard soddisfacente per le spese dell’alloggio e dei bisogni più elementari, crescono e si dilatano le spese “varie” o voluttuarie, come l’abbigliamento, i profumi e la cosmesi, e l’automobile con tutto ciò che occorre per mantenerla. Nella mentalità del consumatore, il possesso dell’automobile, utilitaria, fuori serie, di alta cilindrata e di lusso, è quasi sempre più importante della stessa sua fruizione.
L’automobile, più di ogni altro oggetto, ha segnato il trapasso dall’etica del risparmio (con lo spettro sempre incombente della miseria) che caratterizza l’età dei nostri padri, all’etica del consumismo. Difatti nella società industriale, gli anni ’60 e ’70, dovendosi vendere per continuare a produrre, il consumo non solo è stato incoraggiato, ma anche legittimato fino a sottovalutare la spesa per farsi come valore in sé, onde il possesso di una bella automobile diventa indicatore di status sociale e status symbol.
Lo splendore della forma, il colore, lo stile dell’auto sono in rapporto costante con la persona. L’auto diventa l’abito, anzi è più di un abito; è la dotazione e l’arredo, l’inconfondibile complemento di gusto e di preferenze, quasi osmosi di qualità tra persona e veicolo.
Ora la città è assediata dalle automobili. I parcheggi per i residenti, per i condomini e per il carico e lo scarico delle merci, sono pochissimi, malgrado i moderni collegamenti verticali. ( FOTO DI COPERTINA DA POTENZA D’EPOCA)