di Lucio Tufano
1976: “Alcuni operai vogliono imporre la loro volontà e costringerci a fare quanto è nel loro interesse, senza tener conto delle esigenze generali. Assecondarli nella loro volontà c’è da consumare somme ingenti di danaro per impieghi di carattere esclusivamente assistenziale. Questo non è possibile, senza tradire la nostra responsabilità. Intanto c’è il consenso pieno dei sindacati, la nostra posizione è difficile …
I finanziamenti che vengono reclamati, con la violenza,, l’occupazione di comuni, la preoccupazione di essere debole dinanzi alla situazione e di decidere con pregiudizio del vigore amministrativo nel quale io sempre credo”.
Gli alberi genealogici hanno perduto le loro foglie, i loro rami più robusti.
Qualcosa ha insidiato le radici, si è inquinato l’humus della brughiera dei partiti. Occorre un’inchiesta ecologica sulla sempre più decisa e definitiva scomparsa di alcuni esemplari di razza, i gattopardi e blasonati uomini della politica.
Eppure in ogni organizzazione, dai remotissimi modelli di comunità israelite, calviniste e cristiane, gli “anziani” hanno rappresentato i membri laici di consigli presbiteriali e dei concistori che si prendevano cura del culto, del mantenimento della disciplina e dell’amministrazione.
“Anziani” erano detti quei funzionari che nel comune popolare avevano il compito di consigliare ed assistere il podestà. In Israele erano rappresentanti ufficiali presso le autorità. Con le diaspore costituirono la gerusia, che amministrava la comunità, e divennero parte fondamentale del Sinedrio.
Dopo la rivoluzione francese, costituirono la camera alta ovvero il Consiglio degli anziani.
Gli attuali organismi che si chiamano ancora partiti, alvei di militanze discontinue, ballerine e volubili, ribalde e confusionarie, ove non scorre nessuna linfa democratica o dialettica, dovrebbero prevedere negli statuti un ruolo essenziale per i capi storici, per quei carismi che non cesseranno mai di essere carismi, i padri pugnalati dai figli cresciuti nelle loro ombre.
Congiure generazionali che cementano alleanze per parricidi di brutale lucidità.
Verrastro fu un antesignano, uno che custodì finché potè un patrimonio, quello della DC lucana, una storia che ha le sue luci e le sue ombre, e che affondava le sue radici in quel potere millenario che è quello della Chiesa cattolica.
Perciò fu anche un errore quello di chi non potè né volle, a suo tempo, apprezzare gli uomini a causa dello sciovinismo di bandiera, di partito o di corrente.
Un partito è grande se sa utilizzare i suoi uomini migliori, dando loro ancora voce ed autorità; è debole se li allontana e li emargina. Il rinnovamento a parole, o come nevrosi, porta alla perdita della memoria storica e dà spazio solo agli opportunisti ed ai furbi.
Hanno dimestichezza con il potere, ne conoscono le insidie, mostrano comprensione per ogni destinatario di sventura, sono provati dalle amarezze e non abboccano facilmente alle lusinghe degli adulatori, conoscono l’ebbrezza del successo, ma anche lo smarrimento delle umiliazioni e della disfatta.
Non c’è giovane affermato nella politica, che non trovi, attraverso l’incontro con qualcuno dei maestri, le ragioni della sua formazione e della sua più spedita carriera, sempre che non si tratti di un padrino mafioso, il presunto notabile, o di un allievo furbo, avido e figlio di puttana.
Casi di siffatta negatività ve ne sono a iosa, sia perché mancano uomini di età più avanzata, e perché quando non ci sono maestri, non possono esservi neppure gli allievi. Per questi partiti, quelli nati alla chetichella, non ci sarà mai un domani.
In una occasione congressuale (1974), insoddisfatto per quello che avrebbe voluto dire a ragione del breve tempo, rimase compiaciuto per il riconoscimento da parte dei giovani del suo ruolo di “maestro” e per quella sua zelante interpretazione della presenza cristiana nella vita politica.
Poiché aiutava la gente nella ricerca del lavoro, si guadagnò l’epiteto di “grande collocatore” per la massa dei giovani che riusciva ad inserire nell’Ospedale, al “Don Uva”, negli uffici e dovunque si presentava la possibilità di far lavorare la gente.
Ciò nonostante si lamentava di una società dove sin da allora non andavano avanti i più meritevoli o i più bisognosi, bensì i più assillanti, i più violenti, i più forti: “A che vale la volontà di affermare i valori di onestà, solidarietà cristiana in una società impastata di egoismo e di violenza?”
È così che man mano siamo giunti in una fase del più disastroso degrado della funzione politica, svilita in quella della sola gestione amministrativa, fra l’altro più che ben retribuita, “incapace di proporre progetti e di realizzare riforme di sistema, ben sapendo come senza una propria etica la politica non esiste”.
Lo si afferma anche nel libro «La volpe e il leone» di Marco Follini; lo sostiene anche Mario Restaino nel suo.
Nel passato, quando i partiti si occupavano di principì ideali e della crescita economica e sociale della gente, gli uomini politici facenti parte della classe dirigente “agivano sulla base di profonde convinzioni sia da parte delle maggioranze che delle minoranze. Poi, a partire dagli anni ’80, si ebbe un acuto fenomeno di degenerazione. Il Paese fu destinatario di un processo violento “odiosamente moralistico” nei confronti di una gran parte della politica dei corrotti.
Tangentopoli annientò i partiti che nonostante tutto, svolgevano i loro congressi sulla base di regole come il divieto del cumulo di cariche, la incompatibilità tra cariche di partito e ruoli di governo o istituzionali, militanze molto meno remunerative e sacrosantemente considerate, dibattiti aspri e costruttivi, contrasti e unanimismi, con leader di valore e carisma.
Siamo grati alla dott.ssa Valeria Verrastro per aver lavorato alla pubblicazione di un libro che ci dà chiara e netta la figura del Presidente Verrastro, forse, fino a qualche tempo fa avviluppata nelle nebbie di una era dominata dalla preponderanza dc, dalla “dittatura di una maggioranza” che per decenni ha deciso il destino delle famiglie, del territorio, delle città e gestito in maniera perpetua il potere locale e nazionale, con la guida di un leader potentino, dotato di un carisma quasi mistico. Una era che ho definito della tirannide dei gelsomini, una tirannide felpata, e per certi aspetti anche piena di stimoli, di dibattiti, di vivacità democratica e di speranze per l’avvenire.
Chi era Verrastro, uomo, democristiano e presidente?
Leggendo il personale resoconto lasciatoci e così religiosamente fatto pubblicare dalla figlia, si ricava il ritratto di un uomo dalla forte tempra, dal carattere fermo, dalla convinta fede religiosa, dalla spiccata sensibilità e dalla rara moralità pubblica e privata, doti che oggi difficilmente si riscontrano negli uomini pubblici. Gli stati d’animo, le inquietudini, i tormenti, le delusioni, le amarezze, la dialettica a volte aspra, tra le aspirazioni ed i risultati concreti, come scrive Giampaolo D’Andrea: “sullo sfondo di quella categoria del «non appagamento», evocata da Aldo Moro; le sue analisi profonde con cui si soffermava puntigliosamente sugli aspetti particolari, con la sua oratoria tonda – la si definisce – trascinante, non scevra di figure retoriche, di cui spesso l’insegnante di lettere decorava il suo discorso politico.
Va fatto salvo tutto quello che è stato detto nella presentazione del libro, la sua onestà intellettuale e la fatica per evitare contraddizioni, in omaggio ad un equilibrio difficile e delicato. Il suo dolore per la tragedia di via Gradoli con il rapimento dell’amico Moro, il 19 marzo 1978.
La quotidiana costruzione, dal nulla, dell’Ente del quale è stato il primo presidente; la sua sensibile capacità di affrontare e discutere piani e contropiani dello sviluppo, da quello del Comitato Colombo, D’Aragona e Rossi Doria, presso la Camera di Commercio, a quello del Comitato per la Programmazione con il sen. Scardaccione, alle ipotesi di assetto del territorio, ai progetti addizionali, a quelli di Leonardo Cuoco, la collaborazione di Pasquale Saraceno; la politica di sviluppo, la politica del credito alle imprese, la Cassa del Mezzogiorno.
Nel 1978: col passare dei giorni sempre più la DC si isolava e si immiseriva nei suoi ideologici e lambiccanti rifiuti alla proposta morotea, e i comunisti invece crescevano proprio per la loro volontà di privilegiare senza mezzi termini, i bisogni del paese e dunque di «compromettere» il più largamente possibile tutte le forze politiche disposte ad affrontare e a risolvere quei bisogni. Era la strategia del “compromesso storico” a rivelarsi vittoriosa e feconda. L’on. Moro stava battendo le cieche resistenze dei vecchi e nuovi “dorotei”, ed era il singolare richiamo religioso alla DC genuinamente e strumentalmente vissuto, che ceti sostanzialmente parassitari si erano raccolti attorno ad una ossatura di avanguardia composta da coltivatori, ceti medi e operai, da un elettorato moderato e dalla vigile presenza della Chiesa.
Bisognava scegliere per le più vaste masse di lavoratori e se ne erano accorti gli stessi “dorotei”. Qui li aveva attesi Moro. La sinistra aveva finito con l’interpretare – in tutta l’ampiezza e la profondità – l’egemonia della classe operaia. Martinazzoli si affacciava all’orizzonte del governo.
È questo il vero dibattito, una di quelle occasioni, in cui occorre indagare capillarmente sul ruolo giocato dal potere in una realtà meridionale.
Vi è chi si compiace di ricordare a tutti come nacque il “doroteismo”. Più di una filosofia di vita fu una corrente egemone della Democrazia Cristiana, una corrente anticomunista ed anti “compromesso storico in contrasto alla corrente di base” che non faceva misteri delle possibili aperture all’allora Partito Comunista.
Il “doroteismo” non è stato solo una modalità dell’inossidabile declinazione del potere, bensì uno smalto ottenuto da quel far “diga al comunismo” che diede alla DC cinquant’anni di potere in Italia.
Fenomeni di mandarinato hanno imperversato instancabilmente: l’homo doroteus come uomo di potere è stato sempre presente, e secondo la filosofia di qualche dc, ha ottemperato alle due esigenze dell’ubiquità e del presenzialismo, in quei luoghi dell’anima pubblica nell’orto della politicità eterna ed immutabile, eterna come il bene (mai come il male), come la faccia gommosa e contrita, ìlare e grintosa, altera e patetica, affettuosa e cinica di chi, con tale maschera, veniva e viene dopo, anche molto dopo, chiamato ad incarnare i destini collettivi.
Ora il “doroteismo” ha dismesso i doppipetti scuri e le grisaglie dai grandi risvolti, oggi si è trattato e si tratta di semplici “unti” alla mano, “sempre meno forzosamente democratici, sempre più o meno accostati a quell’andazzo ipocrita o trasandato dei finti santi, anzi ormai con la caduta del sistema preferenziale, appaiono velati, come “stele” del potere perpetuo, da una sorta di “doroteismo” indegno o straccione, giacché il cattocomunismo li ha ereticalizzati senza laicizzarli.
Eccoli che intervengono dovunque, quasi come fossero svegliati da sonnacchiosa reazione-abulica, confortata da vistosissime indennità, alla immane fatica dell’amministrare, con sofferenza impressa nella faccia, gli occhi semichiusi nel proferire discorsi di convinzione radicata, le ciglia sollevate come di chi è stato chiamato ad assumere ruoli che volentieri lascerebbe ad altri, e sente il peso delle pene altrui, o con la frenetica elettrizzata azione di chi è stato predestinato ad assumersi il carico e la responsabilità di “timoniere” di una regione difficile.
Perciò tutto ciò che riguarda il giusto sarcasmo o l’ironia nei loro confronti sarebbe nevrosi, frutto di comportamenti antievangelici.
Il denaro come calcare, come ruggine che logora i gangli dell’istituzione, che paralizza le articolazioni ed i nervi dell’organismo amministrativo-programmatico e politico, quindi democratico.
Non credo che con Verrastro Presidente si sarebbe potuta verificare l’applicazione integrale di leggi Bassaniane per ruoli e figure mai esistite nel nostro ordinamento amministrativo, nella storia e nella nostra cultura del pubblico impiego, quelli dei managers, dei direttori generali, pagati lautamente, ruoli e figure forse adatte per i ministeri importanti, per il Quirinale, per Montecitorio e per Regioni floride, ad economia forte come la Lombardia.
Qui occorre ricordare il rigore amministrativo, e la sobrietà nella spesa come prassi di un Presidente che proveniva da una condizione e da una comunità esemplari per la tenacia nel lavoro, per la educazione e la sobrietà e per la virtù trasmessagli dai genitori e dall’ambiente popolare.
Occorre stabilire la differenza tra il politico che si avvale di sue peculiarità etniche, di carattere, di tenacia nel lavoro, di scaltrezza, cultura ed esperienza, che crede in Dio, da chi ha la stessa energia, e che non crede in Dio. Nel primo può darsi che l’ambizione, l’egoismo, l’avidità di diventare sempre più ricco, l’opportunismo vengano frenati da questo voler o dovere comportarsi in obbedienza e rispetto a certi principi, nel secondo invece non vi è freno, né moderazione; il potere diverrà l’unico scopo della sua esistenza, la focalizzazione dei suoi obiettivi, il nesso tra furbizia e strategia, la sua unica ragione di esistenza.
Il potere è diventato “podere”, patrimonio di famiglia, i padri non passano più dal notaio per lasciare l’eredità ai figli: basta candidarli. Si erigono fortune e discendenze, dinastie e casati …
Pare che Verrastro non abbia portato il marsupio per qualche suo figlioccio, come un grosso canguro, a differenza di altri, a sinistra e a destra, nè ha preparato o predisposto la pedana alle figlie per la carriera equestre.
Si avvalse, e seppe avvalersi di uomini capaci ed esperti, di validi professionisti e tecnici della programmazione, sia facenti parte del suo staff che coinvolgendoli dall’esterno.