Il fumo di sigaro avviluppa la faccia del Sarakè nei suoi momenti di voluttà. Quell’odore che gli piace tanto, e quelle nuvolette che emette dalla bocca a guisa di ricami nell’aria, lo lasciano trasognato. Hanno tutti capito che il fumo è uno dei miracoli appena scoperto dal Sarakè, e si fa in modo di regalargli qualche Toscanello. Lui stesso va dal tabaccaio, da Ferrara o da Ninc Nanc (Mancusi) in Piazza del Sedile; e anche da Gerardo Scafarelli, o don Sergio De Pilato, o zì canonico, cantore della Cattedrale, non si esimono dal fargliene dono. Spesso si sofferma davanti a qualche salone dove i clienti fumano in attesa d’indossare l’asciugamani che il barbiere gli appresta per sbarbarli. È che Sarakè intravede nel sigaro una delle sue conquiste più preziose.
Ha imparato la strofetta che i ragazzi vanno recitando “Sale e Tabacchi, chi tene lu vizie se l’accatta, e chi vole fa u’ signurine, s’accatta pure i cirini”, e non si stanca di canticchiarla davanti al tabacchino di via Pretoria…
Nell’accendere il sigaro egli opera un fatto liturgico, il mistero del fiammifero, quello che si chiama “barbone”, lo zolfanello, la cui testina irritata esplode in fiammella azzurro-gialla.
Nelle nuvolette di fumo che si sprigionano dalla sua avida bocca, scopre una sorta di elisir, la religiosa sopravvivenza a tutte le sue abituali privazioni, una magia di odori e di rinascita, un rito di espiazione, grazie a quel sacro aroma che incanta più dell’incenso, quel suffumigio di purificazione che lo inebria e lo fa sentire uguale ai signori. Per lui è come innalzare sospiri di fumo all’ignoto, un’illusione per fugare ed ingannare la fame, il calmante, l’allucinogeno della miseria, il farmaco per le afflizioni perenni.
Pervaso da gioia inconsueta e irrigidendo tutti i sensi, con premeditazione, da temerario e blasfemo come un bestemmiatore, quasi consapevole che Gesù Cristo, gli apostoli e i più noti cristiani non avessero mai gustato il fumo di tabacco. Il fuoco che consuma lentamente il sigaro lo diverte, appena lo accende, se lo toglie di bocca per scrutare la parte bruciata, e il fumo che esala verso il cielo appare come un fenomeno di evoluzione spirituale. Innalzando segni verso l’ignoto, egli aspira boccate di libertà totale, in una sortes di smaccata esibitoria in cui si sente come titolato di un ruolo importante.
È una pausa alle sue irridenti clownerie, è il suo inguaribile istinto, l’irrefrenabile vocazione di teatro, il suo momento strafottente, la sua posa pauperistica rivissuta in chiave di apparente opposizione radicale al potere onnipresente, da “guitto” ingenuo e temerario, il clown improvvisato di rattoppi e pezze è come se aspirasse ad un ruolo di profeta sottoproletario.
È l’antiolocausto. La negazione di tutto ciò che ha riguardato le ideologie della razza, il mito, la purezza dei popoli, stirpe. È il riscatto degli impuri, la rivolta vittoriosa delle vittime, contro Mathausen, perciò si è definita sin dal Medio Evo “corte dei miracoli”, quell’assetto di gerarchie del sottomondo urbano, tra leaders prototipi e campioni delle sottorazze, esponenti di massa, di quella umanità pur ricca di risorse, spunti, idee, movimento, che ha pullulato le piazze e ha dato nei millenni, grazie a Plauto, a Terenzio, a Molière, a romanzieri e poeti, a Victor Hugo, a Goldoni, ai grandi commediografi, da Aristofane al Rabelais, al Pulci, al Racil, a Edmond Rostand, al Cervantes, Achille Beltrame, Arturo Graf…, personaggi, emblematiche maschere per i teatri del mondo, ed ha fornito caratteri, colore e connotati che hanno infervorato il pubblico, hanno rinverdito la letteratura e riempito le ribalte, anche quelli della Commedia dell’Arte.
Il Canapone vuole essere una risposta alle perenni ingiustizie che la Storia opera nel vasto sterminio dei protagonismi, nella casuale o imposta selezione degli uomini e dei loro destini, una reazione degli anonimi, una sorta di opposizione cumulativa e inconsueta contro gli invisibili e visibili anfitrioni, i burattinai, gli strateghi delle diaspore, delle azioni disumane, delle tirannidi incomprensibili, i registi degli ampi e duraturi disegni.
Sono gli epigoni di quel mondo sprovveduto e rassegnato, l’imperfetta ragione di esistenze occasionali, di quella fiaba ingenua dei deretani obesi e degli strabismi assonnati, dei nani e degli allampanati, di quella mansueta moltitudine di miracoli, mai epurata da Mathausen, né dalla preventiva puntura di Sabin.
Abbiamo quindi colto l’aspetto sociale più depresso, l’infimo stadio, il degrado di una promiscua umanità ai margini, proprio per dotarla di una ragione di riscatto, di rivolta morale contro i poteri del discrimine politico e storico che l’hanno sempre relegata nei ghetti delle città, nel suburbio delle metropoli, misconosciuta od ignorata dagli snobismi, anche utilizzata demagogicamente dagli Stati, dalle rivoluzioni e dalle democrazie fittizie e paternalistiche, tollerata dalla conservazione ipocrita, ritenuta inutile e fastidiosa da chi, inebriato dal potere e dal successo, ha pensato di disfarsene, di liberare le città da presenze ingombranti come si fa con le cose superflue e prive di qualsiasi valore.
Abbiamo voluto, con “Il Canapone”, erigere una sorta di redenzione e di riscatto, non nel senso fraternalista, dell’ama il tuo prossimo, bensì una riappropriazione di identità, investimento culturale, una asserita convinzione della loro utilità sia come convivenza urbana, sia come teatro globale in connessione ai suoi nessi antropologici.
Non materiale umano da escludere, da selezionare, bensì da utilizzare, da sublimare per l’immenso, grandioso progetto culturale e di riscatto biblico di quella moltitudine che ha ballato, con le più strane giravolte, ha compiuto i suoi salti, le sue capriole, dimentica della sua infima condizione, ma in preda alla bizzarria, alla gioia del vedere e del sentire, nell’infinito concerto delle creature, nelle emozioni vibranti della luce e del giorno, nello sgomento lieve della notte, nell’avvilimento duro della morte, nel passaggio delle stagioni, con i suoi più lunatici aggiramenti, porgendosi le mani e chiudendo con la riverenza e poi tra i più gagliardi, a farsi scambietti…, sovraumanazione umana delle maschere, e per cui, infine, il vino, aggiunto all’accalorarsi della danza e dell’aggirarsi intorno, compie il suo imperturbabile girotondo, sul sipario del mondo; fanno finta di cadere come se non fossero più vivi.
Ma anche quelli che come l’uomoelefante, Maciste, don Chisciotte e Sancho Panza, Cirano de Bergerac e Pinocchio, dal naso pendente o lungo, dritto o storto, quelli dal naso grosso, enorme, tutto e solo naso, naso a proboscide, gnomi di casa, gnomi di ufficio, e quelli che si scorgono nei boschi, giubberelli, corti e foschi con capperuccio scarlatto, o accoccolati presso un ciglione della strada, sulle anche, e che si stropicciano il deretano e anche, piagnucolano e soffiano, come li descrive Arturo Graf, o altri favolisti… che hanno gambe nella piazza e testa nel sonno, imbambolati nel fragore del silenzio che non dà spiegazioni.