Michela Murgia ha scritto un post in cui usa una metafora discutibile per descrivere il maschilismo. Secondo la Murgia, si potrebbe paragonare il maschio al figlio di un boss mafioso: per quanto possa essere innocente, tutto ciò che lo riguarda ha a che fare con la mafia. E ha di fronte tre opzioni: combattere la mafia, farne parte, o fare finta che non lo riguardi.
Il paragone è volutamente forzato e serve a contrastare gli uomini che si rifiutano di vedere addebitato all’intero genere maschile gli episodi di violenza sulle donne. L’idea di fondo è che il maschio non può lavarsi le mani di cosa fanno i suoi consimili, e che deve assumersi il peso della lotta contro il sistema maschilista. Il quale è impersonato da tutto ciò che non è antimaschilista.
Una visione del genere però è molto miope e deve essere combattuta per il bene del femminismo stesso. Anzi, va detto che gran parte della classe intellettuale contemporanea sta incorrendo in errori del genere su quasi qualunque argomento di discussione. Eppure dovrebbero essere gli intellettuali i veri motori spirituali del dibattito politico. Dovrebbe toccare ai militanti propagandare, in forma semplificata, il messaggio lanciato dagli intellettuali della propria parte politica. In forma semplificata perché l’affermazione di un messaggio complesso dà benefici maggiori rispetto alla sua mera divulgazione corretta. Se se ne colgono i valori fondanti.
Arriviamo al punto. Le grandi questioni trasversali impersonano dibattiti aperti. Detta in parole più semplici: può esistere un femminismo di destra e uno di sinistra. Ma non solo. Anche femminismi dal colore politico indistinto o confuso possono esistere nel nostro dibattito politico. E lo stesso vale per molti altri temi scottanti (come l’animalismo, o i diritti LGBT). Si tratta di questioni che sono complementari a visioni del mondo di più ampio respiro. Cioè quelle che compongono lo spettro politico: dal comunismo al socialismo, dal cristianesimo democratico al liberalismo, dal conservatorismo al radicalismo, e così via.
Immaginare di guardare il mondo con le lenti delle questioni trasversali è un grande pericolo, perché le questioni trasversali non sono univoche. Possono essere interpretate in tante maniere diverse. E proprio il fatto che è impossibile trarne tesi univoche incrementa un rischio bestiale: la loro trasformazione in pseudoscienze indiscutibili. Il che mortifica il dibattito.
La stessa economia politica è stata trasformata in pseudoscienza dopo l’affermazione accademica di una corrente di pensiero. E non basta l’entità della crisi mondiale a dimostrare la falsità di quel tipo di pensiero economico. Perché oggigiorno gli esperti di economia (la materia più politica e questionabile del mondo) dicono qualcosa. E confutare le loro opinioni non è contemplato nel dibattito democratico. Perché percepito – erroneamente – come antiscientifico.
Ora, la teoria della Murgia non necessariamente è sbagliata. C’è chi ritiene – sono moltissime femministe a farlo – che l’intera questione femminile si basi su una guerra permanente che gli uomini muovono alle donne. Tuttavia, si può anche essere a favore dell’emancipazione femminile e della parità di genere senza ritenere che l’intero genere maschile sia colpevole (l’unico colpevole) del maschilismo. C’è chi ritiene che il maschilismo sia un paradigma culturale, spesso una vera e propria trappola mentale di cui anche gli uomini sono preda. Ne è un esempio l’idea che l’uomo debba lavorare e sostenere la donna, e il senso di colpa che avvertono alcuni uomini quando sono invece loro a essere disoccupati o a portare a casa uno stipendio inferiore alla moglie.
Il femminismo non è monolitico. In una prospettiva socialista, per esempio, il femminismo dovrebbe combattere per l’emancipazione femminile coinvolgendo nella lotta gli uomini. Conscio del fatto che il genere maschile non è il nemico. Il nemico, chi sta davvero facendo la guerra alle donne (e non solo alle donne: ma a tutti gli esseri umani discriminabili), è il capitale libero. Parole che suonano tremendamente marxiste, estremistiche forse. Eppure dubito che qualcuno possa obiettare che i primi beneficiari del maschilismo nelle paghe sono i datori di lavoro. Che dispongono della medesima manodopera ma a prezzo ridotto. E che in qualunque momento potrebbero ripristinare la parità di salario. E perché non lo fanno?
È chiaro che il problema è molto più complesso e coinvolge una quantità di dati culturali che si sono radicati nella gente per secoli e secoli. E che vanno uno per uno sradicati. Ma a quale scopo? Un socialista risponderebbe: allo scopo di costruire una società più giusta, che percepisce il giusto e lotta per il giusto. Nella quale, di conseguenza, tutti i lavoratori solidarizzano tra loro in quanto esseri umani, che combattono uniti per la loro rispettiva dignità contro le discriminazioni assurde che li separano e li umiliano.
Ora, alimentare una guerra tra generi non pare la prospettiva migliore, nell’ottica socialista. E di certo le altre visioni del mondo avranno posizioni diverse, ma difficilmente riusciranno ad avvicinarsi alla prospettiva murgiana. Perché quando un’idea aspira a governare la società, non la immagina semplicemente come somma di due categorie biologiche.
Non addentriamoci nei meandri della filosofia femminista. Aver evocato le categorie biologiche significherebbe discutere di tutto il complesso rapporto tra biologia e cultura. No, il senso di quest’articolo è un altro: comprendere che il femminismo, come ogni altra questione trasversale, non può essere ridotto a unità. Se lo fosse, lo si trasformerebbe in religione. Perché gli elementi comuni alle numerosissime categorie femministe sono così pochi che le ridurrebbero all’osso, creando valori che o si accettano o si respingono. E siccome le questioni trasversali sono spesso questioni di buon senso, respingere tali valori è spesso mal percepito in società. Dopo aver raggiunto questo grado di “religiosità”, la corrente femminista più pop si aggancia al treno e trasforma tutte le sue idee in dogmi indiscutibili.
Ecco, qualcosa del genere risponde al nome del fascismo così come immaginato da Michela Murgia. Un fenomeno non più storico, ma immanente e nemmeno politico. Il fascismo che Michela Murgia immagina è un fenomeno pre-politico, che va al di là delle singole idee della corrente politica. Non a caso la scrittrice immagina, per così dire, che il fascismo non abbia idee.
Peccato che il fascismo le idee ce l’aveva. Proprio contro l’idea fascista (non l’ideologia, che non esisteva – con buona pace di Gentile) è nata la Costituzione della Repubblica. Trasformare tutto ciò che si chiude in sé stesso e non vuole confronti costruttivi con gli altri, disintegrando i corpi intermedi e strumentalizzando le masse con slogan e con la forza non significa essere fascisti. Esistono molte parole che possono adattarsi a fenomeni simili, a seconda della sfumatura: autoritarismo, populismo, demagogia, totalitarismo. Il fascismo una sua identità ce l’ha.
Il fascismo pensato della Murgia invece non ha un’identità, così come il suo femminismo. È un’idea prefabbricata, senza le gambe per camminare, che strepita contro l’intero genere maschile accusandolo di essere omertoso per un fenomeno che riguarda tutta la società (ci sono molte donne maschiliste, sapete?). Solo che anche questo femminismo non si può chiamare fascismo, perché il fascismo è una cosa molto grave che ha una identità ben precisa. E anche il femminismo ha un’identità ben precisa: un’identità plurale, non monolitica. Che strano: mi vengono in mente tanti aggettivi per descrivere questo femminismo particolare, ma nemmeno un sostantivo preciso.