SCRITTORI E POETI LUCANI
a cura di MARIO SANTORO
Poeta straordinario del manierismo cinquecentesco e personaggio in tutti i sensi, Luigi Tansillo nacque a Venosa nel 1510 dalla gentildonna Laura Cappellana. Il padre che apparteneva alla famiglia nobile dei Tansilli era di Nola e questo fa sì che lo stesso autore lo confermi in una sua composizione poetica:
“Mio padre a Nola, io a Venosa nacqui:
l’una origin mi diede, e l’altra cuna:
il che nei versi miei, talor non tacqui”.
Rimase prestissimo orfano di padre se è vero che la madre andò sposa, in seconde nozze ad un gentiluomo di Venosa della casa de’ Solimele.
Il piccolo Luigi, come si legge in varie testimonianze, era biondo, bello, vivace, disciplinato e trascorse l’infanzia tra la città venosina e Nola dove, forse, stava più volentieri.
Giovanissimo, nel 1532, ebbe modo di conoscere don Pietro di Toledo, marchese di Villafranca, e fresco viceré in Napoli che lo inserì tra gli uomini della sua guardia d’onore. Così, alla corte, potette conoscere Garcilaso de la Vega e successivamente Laura di Manforte che era una delle dame di compagnia della marchesa del Vasto alla quel il poeta avrebbe dedicato il suo “Canzoniere” mai pubblicato durante la sua esistenza ed edito, nella versione completa, solamente nel 1996.
Si interessò di musica e si fece notare come poeta tanto da diventare il pupillo del viceré il quale, “volendolo avere sempre presso di sé, l’annoverò nel 1535, in cui l’imperatore Carlo V reduce dall’impresa di Tunisi si recò in Napoli, tra i cavalleggeri italiani detti Contigui, ch’erano cinquanta gentiluomini deputati con altrettanti spagnoli a stare nella corte del viceré col carico di accompagnarlo continuo in pace ed il guerra con armi e cavalli bellissimi.
In quegli anni e, presumibilmente, fino al 1548 fu spesso in mare sulle galere al seguito di Garzia di Toledo e nel 1939 lo seguì a Messina dove il nobile doveva onorare donna Antonia di Cardona dal momento che aspirava alle nozze con la stessa. In quell’occasione due galere furono artificiosamente unite e addobbate pomposamente per offrire a tutti i presenti una lauta cena. E sempre in quell’occasione Tansillo avrebbe recitato un componimento drammatico, andato perduto.
Da documenti vari si legge:
“Questo componimento fu simile ad un’egloga pastorale, in cui due amanti, che si rammaricano, vengono dall’autorità d’una ninfa bellissima indotti a rimuoversi dal proponimento di uccidersi ed a rivocare le loro prime speranze”.
Successivamente Tansillo avrebbe scritto, per consolare don Garzia, avendo la nobildonna Cardona preferito imparentarsi con don Antonio d’Aragona, le tre canzoni pescatorie del pianto d’Albano spagnolo per Galatea che lo tradisce ed un’egloga pastorale in cui si racconta della tristezza di due pellegrini, uno spagnolo, l’altro italiano.
Sembra ben documentato che in tutti questi anni di navigazione in mare il poeta abbia scritto molto, soprattutto poesie gradevoli e d’occasione che fecero aumentare la sua fama. Possiamo ricordare, per esempio le stanze al Martirano, il poemetto la Clorida, la canzone a Carlo V contro il Turco, ma anche la maggior parte dei capitoli, le lettere, le satire, i capricci.
All’età di quarant’anni sposò Luisa Puccio di Teano dalla quale ebbe più di u figlio e, presumibilmente nel 1551 rientro a Venosa per riabbracciare la medre che non vedeva da molto tempo. Si fermò qualche mese prima di rientrare a Napoli, città che dovette abbandonare nel 1553 alla morte di don Pietro per recarsi, per motivi di lavoro, a Gaeta.
Morì a Teano nel 1568 all’età di cinquantotto anni, già noto anche in campo nazionale per la sua poesia che era in stile con la corrente del manierismo che dominava ovunque come sottolinea Teresa Imbriani:
Negli anni passati alla corte rinascimentale del Toledo, Tansillo visse un’intensa stagione di scambi intellettuali anche a livello nazionale: noto fuori di Napoli, si impose con la sua poesia nell’Italia manieristica e fu figura dominante, per tanti aspetti anticipatrice del gusto artificioso del periodo successivo, ammirato anche da Tasso. L’imitazione, il canone di base da cui parte il venosino, si dilata in un complesso rifrangersi e spezzarsi del discorso, che si allarga e si moltiplica a dismisura in un continuo e sapiente mescolarsi di oggetti diversi. La poesia di Tansillo nasce sempre da uno spunto reale, da un fatto casuale; è spesso encomiastica, cioè celebrativa dei fasti della corte, a volte didascalica”.
Tra le opere ricordiamo anzitutto “Il vendemmiatore”, più volte pubblicato senza la sua autorizzazione con il titolo “Stanze di coltura sopra gli orti delle donne”.
I temi presenti sono quelli soliti. Anzitutto la giovinezza che passa in fretta e quindi deve essere goduta al massimo per non avere a pentirsi con il sopraggiungere della tarda età. E va goduto in pieno, senza remore e proibizioni. Le donne tendono al paradiso e non si accorgono che lo posseggono: esso è l’orto che tengono in grembo e dunque sbagliano a cercarlo altrove, così come commettono errore a non godere il presente e a rimandare sempre al futuro.
E per tranquillizzare le donne l’autore dichiara che anche lui spera di godere l’al di là, quando chiuderà gli occhi per sempre, ma intanto si preoccupa di essere felice sulla terra. E sembra aggiungere, un po’ sentenziosamente: chi perde il bene dell’amore, non speri il premio del parafiso, perché troverà il cielo sdegnato.
C’è poi il tema del contrasto stridente tra le donne invecchiate che invocano i buoni costumi per nascondere la loro bruttezza e soprattutto la delusone e le donne giovani e piacenti che desiderano farsi tentare dai piaceri della carne gettando all’aria l’onore, la castità, che sono “ciancie” create dalle brutte e dalle invidiose.
C’è ancora la rievocazione fantastica e favolistica dell’età dell’oro nella quale davvero ogni uomo e ogni donna poteva godere a proprio piacimento, senza limiti e senza imposizioni e infine un motivo certamente non religioso nel coinvolgimento del cielo al godimento delle donne, come si può leggere con estrema chiarezza nella sesta stanza nella quale si dice appunto che le donne che godono sono grate al cielo mentre coloro che si astengono dal godimento sono considerate orgogliose e per loro “si secca il mar de la pietà là suso”.
In definitiva Tansillo è figlio della sua epoca ed erede di un concetto consueto e derivante dall’Umanesimo e cioè di una sorta di commistione tra epicureismo e scrupolo religioso. Non a caso scrive Flamini:
A quel tempo potevano coesistere, con qualche scambievole concessione, nell’animo di molti siffatta specie d’epicureismo e il sentimento religioso. Speriamo, si pensava, in una vita migliore, anzi cerchiamo d’assicurarcela – non è poi così difficile! La chiave del paradiso l’ha il santo Padre, che vive allegramente anche lui: ma intanto godiamoci questa, ch’è un lampo”
E così dalla cinquantaduesima stanza il poeta comincia celebrare la sua forza amatoria, ma le espressioni sono sempre metaforiche e richiamano false attitudini agricole. Così egli loda la sua capacità di usare il “palo”:
“Con tanta agevolezza il palo adopro
che mai sospir di bocca no esalo;”
E altrove, col la stessa disinvoltura egli scrive:
“Tanto talvolta nel cavar m’accendo
che trasformarmi in pal tutto vorrei;”
E successivamente è ancora più esplicito nella esagerazione evidente:
“Né vinto dal sudor, stanco mi rendo,
per aver fatte cinque cave,o sei;
anzi s’avvien, che buon terren ritrove,
a sette passo, e non m’arresto a nove”.
Il linguaggio poetico si arricchisce di continui sottintesi ed a volte si fa incalzante, prima di interrompersi più o meni improvvisamente, per riprendere dopo alcune ottave ancora più intenso e serrato. E non si comprende bene se tale tecnica risponda ad un’esigenza di farsi prudente, dal momento che i tempi erano difficile e la censura attenta, tanto che “Il vendemmiatore” fu messo all’indice, oppure per creare nel lettore una sorta di attesa al fine di stimolare ancor più la sua curiosità e di renderla morbosa.
Altrove il poeta spiega che non tutti gli orti possono essere governati allo steso modo, anche perché egli, al di là delle apparenze, non sono tutti uguali:
“Palo, né zappa oprar non vi si sole,
ma zappolin menarvi lieve, lieve;
sì che del bel terren morda le guancie
ma non che ferro dentro vi si lancie”.
E i motivi restano sempre gli stessi, con imprese, talora, mirabolanti, con qualche donna che si è data la morte, con richiami diversi.
Va detto che “Il vendemmiatore” risulta sovente appesantito da interpolazioni e da lungaggini, ma va precisato che il poeta, pur nelle oscenità, ha saputo esprimersi con versi suffcientemente eleganti anche se non mancano inevitabili cadute.
Ci piace ricordare ancora di Luigi Tansillo il poema “Lagrime”, un lavoro enorme comprendente 1277 ottave, divise in 15 canti o pianti, che però non potette rivedere ed affinare come lamenta l’Ammirato in una sua visita a Gaeta, quando il poeta non stava affatto bene:
“Né passar molti mesi, che senza avergli dato l’ultima mano, essendo non molto sano nel corpo, e già vecchio, si partì da questa vita, con danno non piccolo di Opera così bella, la quale, come che corretta, e riveduta diligentemente dalla pietà del dotto Attendolo, dimostra nondimeno assai agevolmente le piaghe,e margini di esse esser d’altra mano state saldate, che da quella del proprio maestro”.
Il poema racconta la sofferenza e il pentimento di San Pietro, dopo aver tradito Gesù e, dal punto di vista poetico, non presenta dati rilevanti o elementi di bellezza tali da annoverarlo tra le cose migliori, anche se l’edizione del 1585, a quasi vent’anni dalla sua morte, ebbe un notevole successo tanto che l’Ammirato ebbe a scrivere all’Attendolo di aver letto il lavoro in trenta ore e di aver pianto.
Ugualmente positivo fu il giudizio di Torquato Tasso ma val la pena ricordare il negativo e secco parere del Settembrini secondo il quale il poema “Lagrime” alludeva a lagrime che non facevano piangere nessuno.
In realtà il poema in questione, come gli altri,incontra il gusto tipico della fine del Cinquecento come si può facilmente cogliere dai versi che si riportano:
Chi mi ti rende figlio? Ove gli ardenti
miei prieghi drizzo? E ‘n chi debbo per fede?
Per gli estinti fratelli le dolenti
sorelle, tahlor caddero al tuo piede;
e l’orbe madri per li figli spenti;
e pregando di vita, hebber mercede:
hor per te (lassa) chi pregar poss’io,
frate, e figlio, e Signore, e padre,e Dio!…”
Pure merita di essere menzionato il poemetto lirico-descrittivo dal titolo “Clorida” scritto nel 1547 comprendente 170 ottave.
Esso fu ritenuto l’opera migliore del Tansillo proprio dal Settembrini soprattutto in riferimento alle ottave, poche in verità, non di tipo encomiastico. Per la maggior parte il poemetto esprime, con monotonia e in uno stile alquanto prolisso, complimenti e lodi che sanno piuttosto di convenienza e di puro formalismo ai Toledo.
Racconta delle lamentazioni di Clorida, la ninfa del Palazzo di Chiaia, che appartine a don Garzia, che vorrebbe presso di sé i due spagnoli, per godere con loro la tranquillità del luogo ed ammirare continuamente la bellezza dello stesso.
Belle risultano le descrizioni degli elementi della natura, dai fiori bellissimi e di varie specie agli uccelli che cinguettano nel cielo felici, dai balli e dalle danze sulle spiagge con ninfe più o meno nude e bellissime che cantano divinamente ed esprimono sentimenti d’amore, alle barche che fanno da straordinaria cornice in mare per la pesca a pesci di ogni tipo:
Da poi ch’escon le stelle, e l’aria è fresca
apriremo la porta onde al mar s’esce;
gente infinita troverem, che pesca,
e move guerra al travagliato pesce:
chi con le reti imprende, e chi con l’esca,
chi in secco, mentre l’onda or scema or cresce;
chi col tridente in man lento il mar varca,
e porta il lume in poppa della barca”.
Ricordiamo ancora l’egloga drammatica “Due pellegrini” scritta quando il poeta era giovanissimo. Racconta la storia di due giovani che sono preda dell’amore e della sventura.Si tratta di Filauto che ha perduto la sua donna che è morta e di Alcinio che è stato tradito.
Essi si raccontano le loro storie e pensano di por fine, per non soffrire più, alla loro esistenza e quindi scelgono un albero dove potranno impiccarsi.
Si apprestano a farlo quando dal tronco la voce della donna morta parla loro e li convince a desistere dal tentativo di suicidarsi. Consiglia loro di andare a Nola dove certamente potranno vivere bene sotto il governo del conte Enrico Orsini e della contessa Maria Sanseverino e potranno ritrovare la felicità perduta:
“No’ la potrai chiamar altro che vita;
di tante grazie il Ciel ornar la volle:
qui si riserba a l’alte tue ruine
la lunga requie e ‘l non sperato fine.
Due chiari, illustri e gloriosi spirti
han per eterni e cari possessori;
di cui, s’io desiassi in parte dirti
le troppo eccelse lodi e gli alti onori”
L’egloga, che è lunghissima e formata da 1180 versi, non presenta vera poesia e si conduce in uno stile piuttosto ampolloso e pesante con richiami ad Ariosto, a Petrarca e ad altri autori.
Per quanto riguarda il poemetto “Il podere” va detto che si tratta di un’opera che rientra nella letteratura georgica che ha una sua nobile e lunga storia e che tra i poeti del Cinquecento vede impegnati sicuramente Luigi Alemanni, Giovanni Rucellai e Luigi Tansillo.
I tre derivano certamente la materia dagli scrittori antichi e, in particolar modo, da Virgilio, ma riescono a connotarsi in maniera del tutto originale e personale.
Già nella protasi è indicato il motivo conduttore del poemetto: il poeta sa che Giovan Battista Venere ha intenzione di acquistare un podere e allora con garbo e delicatezza discute intorno all’argomento e gli offre i suoi buoni consigli che sono anche frutto di studio dei poeti georgici antichi e moderni.
Indica come il terreno da acquistare debba essere analizzato e quali sono le qualità che deve possedere:
“Se va l’elezion senza la scorta
del buon conoscimento, ella andrà male:
è un gir al bujolà ve ‘l piè ne porta.
Ch’esser puote il podere in parte e tale,
ch’io nol torrei se mi si desse in dono,
non pur a molto men di quel che vale”
L’opera più significativa di Tansillo resta “Il canzoniere”, un’enorme raccolta di poesie in due volumi.
Il primo di essi fu pubblicato soltanto nel 1927 mentre l’edizione completa, due enormi volumi, risale al 1996. Si tratta di poesie di vario genere, per lo più sonetti scritti con stile manieristico, con bella forma e quindi facili da leggere e piuttosto alleggeriti nel tono e nella sostanza.
Le poesie si collocano all’interno della tradizione classicistica e tendono ad esaltare e ad esasperare le situazioni, anche quelle più comuni; mettono in evidenza temi e tratti particolari e rasentano, talvolta forme portate all’eccesso e, in taluni casi, non mancano bizzarrie e gratuite esagerazioni.
La modalità linguistico-espressiva resta sempre formale e segue una sorta di imitazione artificiosa o di “maniera” dei decenni precedenti, senza riportarne le tensioni, le atmosfere, le problematiche, le inquietudini.
Risulta evidente che da un lato i temi e i motivi delle poesie riflettono la crisi del Rinascimento, dall’altro, tuttavia, non riescono ad uscire del tutto dal mondo rinascimentale.
Prevale generalmente l’amore, coi suoi mille motivi di incatenamento, di sofferenza più immaginata che reale, di desiderio sbandierato con troppo leggerezza e superficialità, di timori e paure, di bisogno di rassicurazione che se non è finto, non è nemmeno convincente.
Basta considerare certi versi, presi quasi a caso, per rendersene conto. Nel sonetto XIV del volume primo, per esempio, il poeta paragona la sua storia a quella di una serpe; come questa è avvinta all’erba così egli è legato all’amore:
“Dolente serpe, in cui mostra natura
di quant’ha forza il suo mirando istinto:
perché ti veggio languido e sì cinto?
Non puoi fuggir tua morte o tua sventura?
Così opra Amor in me con ogni cura,
bench’io non cerco uscir di labirinto…”
Al di là del paragone si può notare come i versi siano poco sentiti e questo vale anche altrove. Infatti in un altro sonetto, il sessantunesimo del secondo volume il dramma del poeta è che la donna di cui si professa innamorato non crede alle sue parole:
Dal dì ch’io posi, Amor, l’incauto piede
Fra le catene tue, sì dure e spesse,
uom non fu mai ch’in forza altrui si stesse
con men speme di me, né con più fede.
Né chiesi, a lungo andar, altra mercede,
se non che quella fera mi credesse,
che tante volte, a nota a nota, lesse
il libro del mio cor, dov’ella siede…”
Segue alle prime due strofe una serie di lamentazioni che sanno se non di falso, certamente di costruito e di fantasioso.
Lo stesso vale per le poesie che sfiorano altri temi come per esempio quello della gelosia che viene raccontato con chiari segni di esagerazione e quasi con una punta di ironia e con una terminologia piuttosto tendente a suscitare la curiosità e il riso del lettore:
“Chi vuol veder la piena d’occhi ed orba
fiera, quel crudo abominevol mostro,
che, con rapace e velenoso rostro,
tutto il dolce d’amor rape ed ammorba;
miri questa malnata e nera corba,
nemica natural d’ogni ben nostro,
questa c’uscita è del tartareo chiostro,
acciò ch’ogni mio ben roda ed assorba…”
Generalmente manca la forza e l’autenticità e ciò vale anche per tutti gli altri temi che vengono presentati nella loro enorme varietà.
Non a caso “Il canzoniere” comprende centinaia di poesie.