
LUCIO TUFANO
Non si dice nulla di nuovo se si afferma che la civiltà contadina è a monte delle civiltà storiche e sta alla base di esse. Antiche usanze e credenze lo documentano, fino alle epoche attuali. Noi la riscontriamo, infatti, in quel quid che è dentro di noi e che subisce eclissi e risvegli in tutte le forme dei nostri comportamenti, ivi comprese le espressioni artistiche. E forse questo spiega la costante ispirazione degli scrittori lucani alla campagna e al mondo rurale, che la intuizione di Carlo Levi focalizza in termini di denuncia, di scoperta di una civiltà a parte fatta di concezioni, di modi di vita, di religiosità e di magia ed affioranti in quasi tutte le opere a lui precedenti o successive.
La pittura di Giocoli è un severo messaggio, un ostinato discorso sulla campagna potentina, un simbolico richiamo a quel mondo, alle sue massime, al suo dialetto, alle sacre, alle consuetudini, alla cultura dei padri.
È anche possibile che Giocoli, negli Anni trenta, dipingesse la campagna per una scelta operata rispetto a quella borghese; ma quali i motivi di questo suo ostinato ripetersi, di questa sua staticità, di questo suo ossessivo proiettarsi nelle angolazioni, nel sentiero, nell’occhio del paesaggio?
È stato certamente l’amore sconfinato per una cultura, il vincolo tenace con essa, non solo con la tradizione e il folclore, quanto con quella cultura intesa come complessità di riti, di operazioni, di rapporti, di valori, di invenzioni e di usi che la “cultura urbana” non ha saputo ben tutelare e conservare.
Un disperato messaggio di allarme, una inesauribile capacità di trasmettere segnali, una richiesta d’aiuto continua e angosciante, in direzione della ecologia, del rispetto e della adorazione di un ambiente, amore sviscerato per una campagna custodita solo nella memoria.
Manifestazione questa di una coscienza infelice e critica nei confronti di una più profonda scissione culturale. Un’area di pacificazione, quindi, poiché Giocoli rimase fermo agli anni ’30, ’40 e ‘50 ed ha avuto orrore degli altri anni, dei successivi, di quelli che si sono scaraventati con furia e rapidità, lasciandolo attonito, perplesso, a quei sobri, frugali contenuti, anche se dalle tecniche progredite.
Giocoli, figlio della media borghesia agraria, ha dipinto la campagna come un suo habitat naturale. La ha amata più dei contadini che l’hanno in seguito abbandonata e per i quali “fuora mia e fuora toia” era un modo di indicare un luogo all’esterno della città, all’esterno di sé.
Estraneo ai tumulti, alle vicende di quella epica contadina caratterizzata dalla occupazione delle terre, a quel realismo delle problematiche sociali diffusesi già dai tempi delle prime rivendicazioni e denunce, dal Ciccottismo ai Pignatari, e, nel canale dialettico Fortunatiano, rappresentato dalle opere di Petrone da Venosa, Colasuonno ed altri.
Una cultura della immaginazione bisognosa, che soddisfaceva i bisogni profondi dell’io sociale, dell’io povero? In lui è ben intuibile e chiaro invece il tema caro del rifugio, del silenzio, di quel soffice mondo. Ecco la perplessità di una possibile lettura, in chiave preleviana, della pittura di Giocoli.
Nelle sue tele non v’è alcunché che profani questo lirismo, questa purezza; non c’è una ciminiera, perché, prima di tutti, ha saputo che cosa essa avrebbe significato; non c’è il mare, non c’è la notte, non c’è il palazzo, né la rotabile, né il treno, non c’è l’automobile, nulla che possa turbare la quiete, il cuore nevoso o variegato del silenzio; non c’è neppure l’uomo, presenza equivoca, deludente, impura, che macchia i tersi verde-azzurri dell’ansia.
Nessuna conflittualità di classe, nessuna storicità impressa alle questioni sociali.
Solo la paura che la città avrebbe finito col divorare la campagna, come in realtà è accaduto.
La vulnerabile parte di destino, la precarietà delle cose, la ingenua trattazione del tema globale e unico, l’assoluta assenza della ideologizzazione pittorica, fanno di lui un naif dei contenuti, pur essendo un esperto delle tecniche.
Vi sono entità medianiche che hanno il potere di ritornare nell’epoca a loro congeniale, il potere di prediligere determinati anni e di risiedervi stabilmente. Vi sono entità che, per amore di un passato, rimangono fortemente attaccate ad un luogo, ad un “circostante”, ad una topografia di alberi e di viottoli.
È così che si spiega la “terrestrità” di Giocoli come natura che ritorna ad essere ambiente, memoria.
Giocoli non va inquadrato in nessun realismo, giacché, come sosteneva Guttuso, la realtà è un prisma con tante facce ed il pittore è dentro una di queste facce. Il surrealimo invece pervade il mondo contadino, quello delle allegorie, dello inconscio, del rifugio, dentro l’angolo, nel viottolo, nella “cuntagnola”, immagini ammonitrici che attestano la campagna, prima della colata di asfalto e cemento.
Testimonianze contenute nei proverbi, negli indovinelli, nelle massime, di quanto la cultura contadina possa dare nella interpretazione e nella produzione di arte e di letteratura, quanto di vigore intuitivo ed immaginifico.
Notevole risorsa simbolista, molto più avanzata e profonda delle altre culture: il surrealismo della cultura contadina è nato prima di Magritte. Ma da noi le avanguardie del 900 non sembrano mai arrivate, eppure le risorse vi erano, creative ed ingenti, senza che venissero sfruttate. Tornando alla pittura di Michele Giocoli, vi intravvediamo il lirismo terrestre, il “circostante”, la circolarità perimetrata che si restringe di anno in anno.
Più che una divergenza tra borghesia e contadinismo, vi è il dissidio estenuante, lo sgomento per la perdita della campagna, mentre si è cercato dovunque e ad ogni costo di caricare una temperatura, di ideologizzare, per propria interiore contraddizione, una tavolozza che ha invece le sue reliquie colorate in una gamma di affreschi da finestra degli anni trenta.
Fumi con striature rosso sangue le motivazioni degli ideologi di ogni epoca, che alla fine rinnegano, per opportunismo, anche quelle.