Margherita Marzario
Andare alla presentazione di un libro sulla tua regione e vedere annoverare tra i paesi ricchi di storia il tuo paese di nascita: nascere in un posto ti segna e ti segue per tutta la vita in maniera silenziosa e significativa come la linfa irrorata dalle radici! E così comincia il tuo viaggio lungo alvei e anse dei fiumi della memoria. Salandra, Sabato santo, silente e significativa processione con la statua commovente e realistica della Madonna Addolorata, strettoie del rione Castello che richiamano la via stretta indicata da Gesù, scorciatoie per evitare il percorso lungo o per raggiungere la processione già avviata, sgranare la coroncina del Rosario in preghiere distratte, salire sul Calvario come la folla che accompagnava e denigrava Gesù, strumenti musicali pesanti appoggiati a terra durante la predica del prete, schiamazzo dei bambini, saluti e auguri anticipati tra i presenti, semplicità del pasto del giorno in attesa del lauto pranzo pasquale preparato dalle mani esperte e amorevoli delle mamme (altro che robot da cucina o piatti da asporto!)… Scolpiti ricordi nel marmo del tempo come la Pietà di Michelangelo che rimane lì e suscita emozioni sempre nuove! Salandra, terreno non ancora edificato in attesa di destinazione, denominato “orto delle suore”. Automezzi da lavoro parcheggiati, mattoni forati impilati lungo un lato, banco da lavoro abbandonato dal mitico zio Pietro (che era stato il primo ad andare ad abitare nelle Strettole quando il paese non era ancora esteso sin lì). E i bambini del rione (a cominciare dalla scrivente) a giocare alla macelleria con i frammenti dei mattoni forati: quelli sminuzzati erano la carne tritata, quelli lisci le fettine, quelli spigolosi lo spezzatino, quelli più grossi le cosce di pollo… E ogni volta ci si divertiva a ripetere e rinnovare quel gioco improvvisato e ideato da bambini. Non esistevano problemi di sicurezza, vigilanza, responsabilità e intervento degli adulti, non c’era bisogno di affermare i diritti naturali dei bambini come il diritto alla strada e il diritto all’uso delle mani, non
erano necessari giochi didattici, giochi con marchi, videogame, gamification, metaverso e altre cavolate o diavolerie. L’infanzia era sperimentazione di un proprio linguaggio, dei limiti e della ludicità naturale insita nei bambini e nella vita stessa. Tempi andati a causa di noi adulti di oggi. Salandra. Salandrella, torrente da cui sono saliti gli antichi Greci che costituirono il primo insediamento del paese e da cui donne e uomini salivano le pietre per costruire le loro case. Salamandra, uno dei rettili della fauna locale e che richiama il nome del paese. Salmastra un’area rurale, a testimonianza del mare che si è ritirato. Sale grosso e sale fino, immancabili in ogni cucina per usi diversi (tra cui sciacquarsi la bocca con acqua e sale dopo la caduta o l’estrazione di un dente). Salaiolo e salaiola, così erano chiamati i tabaccai e, poi, diventavano i soprannomi con cui identificare la famiglia anche nelle generazioni successive. Salamoia, uno dei modi di conservazione degli alimenti per farsi le provviste per le stagioni fredde e le donne rivelavano la loro abilità da chimico nel preparare la soluzione acquosa mettendo manciate di sale a occhio. Salsa di pomodoro e salsiccia (e non salame!), non solo tradizioni o modi per preparare scorte per tutto l’anno ma veri e propri riti. Saliva, usata come detergente, umettante, disinfettante (per esempio la mamma era solita togliere con la sua saliva le impurità dal viso dei figli prima che andassero a scuola). Salti con i sacchi, sulla schiena di ragazzi piegati “a cavallina”, con la corda o al “castello” (altrove conosciuto come “gioco della campana”), tra i più bei giochi di strada (altro che palestra!). Saltare i pasti era frequente per miseria o durante la Quaresima. Salite, soprattutto quelle vie strette che portano al vecchio centro storico conosciuto come “Castello”. Salire o saltare sul letto matrimoniale assolutamente vietato. Salire sugli alberi non era ritenuto pericoloso: si saliva sugli ulivi per raccogliere sino all’ultima oliva; si saliva sulle querce per legare le corde e fare le altalene durante la festa della Madonna del Monte. Salire, uno dei verbi più usati, come salire la cordicella con il gancio che veniva usata dai piani superiori per fare su e giù con la busta dell’immondizia o altro. “Saluto”, il modo di chiamare le condoglianze. Saluti garantiti a tutti (saluti ossequiosi o servili ai “don” del paese) e accompagnati, poi, da domande rituali ai bambini o agli sconosciuti: “A chi sei figlio?”, “A chi appartieni?”. Salutari erbe selvatiche. “Saldosc-n” (la salsola), il nome in dialetto di una pianta spontanea dal sapore salato che veniva data in pasto ai maiali. Saliscendi alle porte e alle finestre senza alcun timore di ladri o sconosciuti. Salice piangente, punto di riferimento all’ingresso della vecchia villa comunale. “Salve Regina”, ripetuto a memoria alla fine della recita del Rosario insieme alle vicine nella penombra della casa alla fine di ogni stanca giornata o stanca vita. Salvatore, uno dei nomi maschili messi più per devozione che per tradizione. Negli anni ’70 nelle strade c’erano ancora poche macchine, mentre si vedevano gli ultimi asinelli e altri mezzi rurali di locomozione. Alcune figure professionali o persone che diventavano quasi personaggi si distinguevano per il tipo di veicolo usato. C’era il signore che sarebbe diventato, poi, il vicesindaco che, col suo furgone rosso, andava vendendo la maleodorante candeggina (chiamata dalle casalinghe varechina o medicina) a litri, altre mercanzie e le scope che fuoriuscivano dal retro. Con lo stesso furgone girava tutto il paese per propagandare la tanto attesa festa del 1° maggio diffondendo il canto popolare di matrice comunista, “Bandiera rossa”, che era canticchiato un po’da tutti, pure dai bambini. Puntualmente arrivava da Matera l’agente di zona dell’UTET con la sua utilitaria, una 126 bianca, ed era un privilegio avere in casa quei pesanti volumi, ricchi di tutto. Con la Renault 4 rossa (lo stesso tipo su cui fu ritrovata, a Roma, la salma di Aldo Moro) girava il tecnico riparatore e dalla sua macchina parcheggiata si capiva che in quella casa c’era qualche problema con la lavatrice o altro elettrodomestico. Di Mini Minor marroni ce n’erano due ed erano guidate da due maestre elementari e per i bambini era una gioia salutarle, seppure timidamente, al loro passaggio. Con la bicicletta e inseguito da cani, tornava al paese, un avventuriero solitario, chiamato “Tarzàn”, vestito o svestito alla meno peggio, su cui si raccontavano leggende (per esempio il suo legarsi con una cordicella alle tamerici, lungo la sponda, prima di calarsi nel fiume perché non sapeva nuotare) che portava il suo pescato nel Basento in una cassetta. Salandra a inizio autunno (forse la stagione che la rappresenta di più per com’è diventata): silenzio delle campagne in gran parte semideserte; spopolamento più che strisciante; parenti ormai quasi inesistenti; soffermarsi come stanziali ragni; scorgere dettagli; suggestivi paesaggi; scorci emozionali… Non resta che assecondare il silenzio e volgere lo sguardo e l’orecchio intorno dove tutto sembra (ma sembra solo) immutato. Numerosi nibbi che sorvolano il centro abitato sino a rasentare i tetti (sin dietro la Chiesa Madre) come se ne fossero i protettori, con le loro ombre
sembrano aquiloni cinesi senza fili perché non si fanno manovrare da nessuno se non dalla loro natura rapace. Farfalle cavolaie in abbondanza, qualcun’altra più bella e meno comune come vanesse e macaoni, qualche ape, tanti ragni e ragnetti, sinuosità della vegetazione che si riappropria degli spazi sottrattile nei tempi remoti, il sibilo del vento che accompagna i ricordi lontani ma vivi e vivificati a ogni ritorno. Nascere in un paese allora rurale, boschivo, antico (risalente alla Magna Grecia), ti fa provare qualcosa di atavico, ancestrale, viscerale, quasi apotropaico, quando ti ritrovi immersa (seppure in maniera fugace come il posarsi di una farfalla che, non a caso, è il tuo insetto preferito) nella sua natura che, per quanto deturpata, torna a essere selvaggia anche in seguito all’abbandono delle campagne. E, poi, si aggiunge l’abbraccio, dopo anni, con un’amica d’infanzia (quell’età che ti dà il linguaggio emotivo autentico che fa affrontare tutta la vita) che si commuove con e per te come nessun altro. Nel presente, anche la morte di una cara amica – di tua madre – d’infanzia nel paese non rappresenta semplicemente la morte di una persona, seppure lontana nel tempo e nello spazio, ma comporta la morte di rituali, di una parte di memoria personale e collettiva, di rinnovamento di emozioni e aneddoti, del rapporto di vicinato di una volta, dell’autentica umanità di chi ci ha preceduto, del piacere di rincontrarsi alla festa patronale di San Rocco, ritenuta speciale anche solo perché faceva ritornare tutti in paese. Turbinìo di emozioni anche quando in paese muore l’anziana ortolana. Con lei muore non solo la sua persona ma un antico mestiere che non può essere uguagliato da nessun fruttivendolo, da negozi di prodotti biologici o banconi di supermercati. Con lei se ne vanno riti e abitudini di paese, richieste di determinati prodotti, attese del suo ritorno dalla campagna davanti alla porta di casa, domande su come andasse l’annata e tanti altri dettagli. Nei paesi di una volta si toccava con mano il senso della cura, non esisteva l’indifferenza ma ognuno faceva la differenza. “Maria Dolores è la mia unica amica, ma lei è malata alle gambe e non può camminare e io la porto a spasso sulla carrozzella, e così andiamo insieme per le strade del mio paese che è fatto tutto di pietre. La mia amica è molto bella e i suoi occhi sono azzurri e sorridono sempre. Quando guardo gli occhi di Maria Dolores, mi sembra di camminare nel cielo” (da un racconto di Bruno Ferrero). Così la bambina diventata adulta nostalgica che accompagna l’anima bambina cresciuta e rimasta in paese, in quel paese d’infanzia che non c’è più!