LUCIO TUFANO
Si stava uscendo dall’ambascio, dai giorni terribili della guerra mondiale, un fenomeno catastrofico al quale partecipò gran parte dell’umanità. Il ‘900 stava per concludersi con le tragiche statistiche della sconfitta, la sconfitta di tutti, delle nazioni che effettuavano il conto dei morti e l’entità del disastro.
L’eccidio di Rionero e quello delle Ardeatine, i campi di concentramento come Dachau e Mauthausen …, “Le Foibe”, le vicende di El Alamein, le ritirate dalla Russia bolscevica; figure colossali del terrore apparivano ancora nei cinema e poi in Tv, Stalin, Hitler, Pol Pot … Insomma era crollato il grande edificio costruito dalle retoriche del vittorialismo, le retoriche delle guerre inutili, delle stragi, dell’imperialismo nazionalista ed esaltato. V’era da fare un bilancio del ‘900, sin dalle irrisorie imprese d’Africa, la vicenda del 15/18 ove furono immolati migliaia di contadini ignari di quanto accadeva e che, scappando alla morte, vennero fucilati dalle corti marziali … Appariva il vuoto di tutte le megalomanie erogate da sfegatati eroismi, perfino parte delle poetiche del ‘900 apparivano ormai deludenti e prive di significato. Il Vittorialismo con alla testa Gabriele D’Annunzio era crollato in una ridicola e tragica disfatta. Il Futurismo di Marinetti, trangugiato a scuola, suonava come la squilla di generazioni in preda al delirio della macchina, della guerra come “igiene del mondo”
Il Vittoriale mostrava la sua maestosa immagine di simulacro cimiteriale, e le correnti culturali, i monumenti, i roboanti discorsi di Mussolini, di tutti coloro che avevano voluto provocare una tale immane disfatta.
La letteratura del pessimismo aveva ormai il suo diritto di essere riconosciuta come la migliore forma di intellettualismo, dai filosofi, ai poeti ed ai pensatori.
Fu quello il tempo in cui, i poeti lucani come Scotellaro, Sinisgalli, Parrella, ci raccontarono di come fosse andata la vicenda.
Avevamo letto e ponderato i poeti allora più di moda, García Lorca, Ezra Pound … Paul Verlaine; ci affascinava Baudelaire e ci faceva discutere, nel tempo della guerra fredda e della opposizione al “doroteismo” di Emilio Colombo, il grande poeta Arthur Rimbaud: “Una stagione all’inferno” e le “Illuminations”, e capivamo come la rivolta prevede la persistenza dei nemici, mentre la rivoluzione ne prevede l’abbattimento, al primo poeta di una epoca ancora sconosciuta.
Venivamo dall’esperienza didattica praticata nei licei. Venivamo dal Liceo classico Orazio Flacco di Potenza. Ci si sentiva confidenzialmente vecchi amici di Carducci, Foscolo e Leopardi, anche se ci avevano, con l’aiuto di professori ossessivi perseguitato con la “consecutio temporUM” ed i verbi irregolari, i quattro perfetti di Orao; una spavalda aria goliardica caratterizzava le abituali nostre sortite da Peppe Riviezzi a san Michele, trattoria frequentata da politici ed attivisti di sinistra, con i tavoli imbanditi di rape, orecchiette, marruche e braciole al sugo.
Avevamo vissuto il tragico mito del Fascismo, e del suo miraggio esasperato di vittorialismo e di eroismo, strettamente alleato della cultura nazionalista della nazione allevata all’esaltante “cavalcata delle walkirie”, alla musica esaltante di Wagner, di Beethoven, anche se ormai tutto era crollato in una nostra riflessione di incontri nel pessimismo metafisico di Schopenhauer.
Ci riconoscevamo in un medesimo modo di concepire la realtà e la creatura, e ci si reincontrava sulle ragioni nichiliste di Kafka e Musile, sull’elegia contadina di Rocco Scotellaro, sulla “Civiltà contadina” di Carlo Levi, sulla nostalgica visione mnemonica del paese lucano di Michele Parrella, sui ricordi dolci e romantici di famiglia e di ambiente di Sinisgalli.
Una esigenza del nostro “modus vivendi” era il bisogno di processare un passato costellato di bandiere, retoriche, guerre, stragi, patriottismi ed esaltazioni di folle e mobilitazioni di piazze in divisa.
Questo modo di revisione critica dei trascorsi periodi politici e retorici, tutti sfociati nello sfacelo di popoli e nazioni, finiva per generalizzarsi da passioni individuali a stato esistenziale collettivo, fino ad assurgere a categoria ermeneutica del “disagio esistenziale”.
Il neorealismo fu anzitutto un’esplosione di libertà dopo le costrizioni e le mistificazioni del ventennio fascista, una rottura col passato, una scoperta dell’Italia reale solo vagamente anticipata in qualche film precedente, un giro d’orizzonte sui disastri della guerra, una rivalutazione sotto l’impulso innovatore di uno sguardo fresco, senza artifici e pregiudizi, dell’uomo contemporaneo nel suo esistere quotidiano e nella sua parte nella vita, nella società e nella storia. Questo slancio si nutrì di spontaneità, di coerenza e, pur nella diversità degli approcci, di una tensione univoca che non si sarebbe più ritrovata nel cammino del nostro cinema. Non dunque una tecnica particolare (riprese “dal vero” con interpreti “presi dalla strada”), né un solo linguaggio o stile (quello di L. Visconti essendo, per esempio, agli antipodi di quello di Rossellini), né contenuti scelti, proposti o sviluppati secondo una stessa matrice, caratterizzarono il neorealismo; bensì il comune atteggiamento di fronte a una realtà nuova e inedita al cinema (donde il prefisso neo al termine realismo, almeno secondo l’interpretazione più semplice e sensata), il comune spirito nell’affrontarla, esplorarla, rivelarla quale passaggio essenziale e indilazionabile verso qualsiasi opera di rinnovamento e ricostruzione del Paese.
La buona fede del realismo socialista coincise con i problemi e le aspirazioni di una generazione divisa tra le critiche sociali e il richiamo della prepotente personalità di P. Picasso. Se dopo il 1920 la pittura italiana scopriva la lezione impressionista di C. Cézanne, dopo il 1945 Picasso e il cubismo, tramiti essenziali per quella presa diretta della realtà, che fornirono alla pittura del neorealismo la linfa più autentica e vitale.
Così, con Ninì Ranaldi, pittore neo chagalliano, si visse intera una epopea di ricostruzione delle speranze e della nuova cultura. Con noi vi erano Vito Riviello, Rocco Falciano, Mauro Masi, Gerardo Corrado, Giancarlo Cuscino, Nicola Tranfaglia, Giuseppe Pedota e tanti altri. Perciò lo “Sconfittorialismo” è una componente filosofica, poetica e culturale del “Neorealismo”