LUCIO TUFANO
Il letame: romantico sentore della campagna, delle masserie dell’Ottocento e del Novecento, le più note e ricche, quelle degli agrari e dei latifondisti, gloriose postazioni sociali, fortezze del benessere, palazzi baronali e feudi della vita rustica. Ma anche reminiscenza dell’infanzia, della fiaba, di mucche e di stalle, dei tepori e sopori, di stallatico e di strazzo, di balle fienaie, di utensili e di groppe, di botole misteriose dentro le quali si custodiva il grano. Il letame era l’humus, le point central d’on part et auquel pervient toute production vègètale. Le concimaie hanno una storia, punti della trama agreste in vicinanza delle stalle, ma più in alto per conservare e scaricare il carico dei carri fatto di strame e paglia. Quelle che raccoglieranno le deiezioni degli ovini, meno acquose e più concentrate di quelle dei bovini.
In altissima considerazione erano tenuti gli escrementi dai “rozzi” contadini che, alla guisa di Bertoldo e Cacasenno, tesoreggiavano tale materiale come sicuro emblema di ricchezza. Ma di radicato grande prestigio godevano i rifiuti animali anche presso gli agricoltori ed i proprietari, per la loro azione fertilizzatrice. È opportuno citare l’episodio dell’agrario che invitò ad un lauto pranzo gli amici, uno dei quali atta fine della tavolata uscì di corsa dalla casa per andare a sporcare nel campo. Questi per rispetto al padrone, che lo aveva ospitato rifocillandolo con ogni ben di Dio, pensò bene di sfociare in un altro fondo per svuotare la sua pancia di tutte le scorie. La cosa non sfuggì all’ospite che con rabbiosa reazione inveì contro il malcapitato, accusandolo d’ingratitudine, perché, avendo divorato tutta la roba che egli gli aveva propinato, era andato a corredare il fondo altrui del pregevole materiale utile ad arricchire il terreno, invece di restituire quanto aveva preso.
Il concime di stalla, detto stallatico, risulta dalla mescolanza intima degli escrementi solidi e liquidi del bestiame con la lettiera. Racchiude tutti gli elementi di fertilità e si applica alla generalità delle piante.
Nelle nostre contrade il concime di stalla era molto scarso, non solo per l’accidentalità del suolo e per la natura delle piante, quasi tutte arboree ed arbustive, che richiedevano lavori a mano, ma anche perché la maggior parte dei contadini viveva in paese ed essendo pochi i contadini che lavoravano la terra con l’aiuto degli animali, non c’erano stalle nelle campagne.
Nella stalla invece si procedeva così: dalla greppia alla posta (lo spazio occupato dagli animali), alla zanella che raccoglieva le urine non trattenute dalla lettiera per farle confluire in apposito pozzetto, si raccoglieva lo stallatico. Sulla posta si metteva la lettiera avendo cura di metterne di più sotto le zampe posteriori degli ammali, in modo che gli escrementi solidi e liquidi si depositassero. Nella stalla si andava sviluppando una grande quantità di letame che, entrando in fermentazione, sviluppava ammoniaca, anidride carbonica, acido solfidrico ed altro.
«La Lucania Agricola» del gennaio-febbraio 1897 ci dà una puntuale attestazione del culto per Il letame e dell’eccezionale didattica con cui se ne consigliava l’uso. Infatti nell’articolo intitolato Il principe dei concimi, ci si rivolge ai lettori carissimi, nominando un principe, non di quelli spodestati, superbi e vani, ma uno di quelli umili e benefici. I lettori già lo conoscono: è lo stallatico, «che voi chiamate fumiere» – scrive il redattore. E continua:
«Lo so, non è un personaggio simpatico, ma se lo trattate con i dovuti riguardi, vedrete quali e quanti utili servigi [sic]può arrecarvi, è barbaro, è primitivo il modo di conservazione del nostro letame, che pure è sempre il più comune, il più usato, il più economico dei concimi: è quello che contiene, per quanto diluite, tutte le sostanze utili alle piante. È tanto buono che se voi lo abbandonate sui campi, se voi lo guardate con disprezzo, l’umile fumiere, fuma filosoficamente con la indifferenza del turco. Se lo curate, egli cessa rispettosamente dal fumare, così come farebbe un nobile cavaliere davanti ad una dama e produce, produce […].
In Basilicata si continuerà a far uso per molto tempo dello stallatico.
Il letame insomma era denaro, misteriosa crescenza della terra e del suo humus. Si copriva il letame con uno strato di terra argillosa inumidita o asciutta. L’argilla fissava i sali ammoniacali non lasciandoli disperdere neppure con le piogge continue. Era la terra, infine, che assorbiva ogni cattivo odore.
Il letame era, nell’economia e nella vita contadina, un fattore imprescindibile della logica e della tecnica agraria, era oggetto di conversazione e di consigli, era l’ambiente, l’aria, l’odore. Se ne occupavano i sogni dei contadini e di esso si faceva tesoro per gli orti e per il loro magistrale e misterioso criterio di coltura.
L’orto era uno spazio, una superficie, un pezzo di terra, generalmente recintato o delimitato, nel quale si facevano ingigantire i peperoni, i sedani, le cipolle, i cavoli, le rape. Era questo piccolo, angusto Eden, sporco ed inquinato, che provvedeva a nutrire la famiglia contadina. L’ortolano studiava i mezzi più idonei per ottenere più grandi risultati, con ingegnosi artifici, tendendo a sforzare ad ogni istante la natura, i caratteri genetici degli ortaggi, anticipando o ritardando la maturazione dei prodotti a seconda dei bisogni e modificando le tendenze dei vegetali per renderli più adatti allo scopo: gira gira lu citrulle ngùle ngùle all’urtulane (cresce, cresce, il cetriolo fino a toccare l’ortolano). Gli orti ed i giardini, in una società che viveva in stretto contatto con il mondo vegetale, con la terra sentita come matrice feconda, rappresentavano – come felicemente sostiene Camporesi –
«[…] i vitali emblemi della fecondità nei serbatoi umidi e fermentanti di essenze e di sostanze che fecondate dal vigor vivace della virtù generativa, maturavano felicemente i loro frutti. Gli dei degli orti si ergono, membruti simulacri di vis generativa, turgide erme falliformi, in un anfiteatro vegetale.»
Erbe, radici, foglie, pule, semi, residui, deiezioni, sangue, carne, ritagli di cuoio, cascami di lana, crisalidi dei bachi da seta, peli, unghie, ossa, spazzatura, pozzi neri e terricciati, sono il fermento della terra, il lievito che ingrassa le zolle e nutre per la cospicua quantità di materia organica.
In relazione al loro valore fertilizzante i letami si classificavano in ovino, suino, caprino, equino, bovino. I letami equino ed ovino fermentavano con maggior vigore ed erano preferiti per la formazione dei letti caldi. L’ortolano non lasciava improduttiva alcuna porzione di terreno in nessuna epoca dell’anno e si aiutava con tecniche accurate, con le copiose e razionali concimazioni di letame (u rimane), con l’irrigazione e con tutti gli altri mezzi. Gli orti erano gli appezzamenti “sacri” del fondo, quelli dei quali il contadino era più geloso, specie quando vi crescevano le fave.
Incombeva su di esse il silenzio e la paura di penetrarvi, specie quando si sapeva, da ragazzi, di quanti buoni frutti erano portatori. Famosi a Potenza erano gli orti di Pascalotto, di Ciummella, di U rrùss, di Pentisco, quelli che costeggiavano il Basento e quegli altri sotto il cimitero […], gli orti di Tronc Tronc …
Una volta entrati nell’orto si avvertiva – come scrive Camporesi – un impercettibile turbamento non appena si era scavalcato il muricciolo o la recinzione; luogo inquietante a forte tasso d’inquinamento magico: pareva di essere dentro un’area separata, diversa, protetta da chi sa quali mura, «in un ordinato teorema vegetale riservato a quei silenziosi organismi viventi […]».
Suggestiva ancor più la descrizione che ancora ce ne fa Camporesi:
«L’orto tuttavia, nella sua discreta, ovattata, umida atmosfera, fra il tacito scorrere di acque placide e quasi inavvertite, può essere centro di seduzioni ombrose, di sottili fascinazioni euclidee […] razionale come la mappa di una città ideale, come una geometrica scacchiera, come un matematico labirinto scandito dal “mirabile ordine”».
Era l’orto che dettava tutte le massime prudenziali ed i proverbi meteo-agronomici, una bibbia della tradizione ortolana, una religiosa e pedissequa osservanza di riti e pratiche che non ammetteva neppure la discussione sul modo di cambiare i criteri di coltura. I contadini sdegnavano tutto quello che sapeva loro di nuovo come l’introduzione di altre varietà di prodotti, e le cure contro le malattie e più di tutto i concimi chimici, rispetto al prezioso puzzolente letame.