Fino ad oggi la piazza aveva chiesto asilo alla città[1] per il solo tempo della festa, della fiera, delle adunate militari e politiche, per quelle religiose, ora ne reclama l’uso il Sarachella, la maschera che diventa protagonista dello spettacolo.
È questa una sorta di riscatto della piazza e della stessa maschera, delle antiche baldorie del Carnevale, delle sue maschere contadine e delle “pacchianelle” accorse dalla campagna ad animare piazza Prefettura, di quelle borghesi che, del caffè Pergola, facevano il loro camerino e loro quinte.
Ora la piazza ha perduto la sua centralità culturale, la sua importanza di incontri sociali e festivi, è stata relegata a centro della scleropoli con il perimetro dei pali, voluti dal sindaco Vito Santarsiero, al posto dei romantici e tradizionali fanali del ‘900, dal grande parcheggio delle automobili, e della sosta delle gloriose carrozzelle che trasportavano le signore alle rappresentazioni liriche del Teatro Stabile ed alle serate dei balli al Circolo Lucano. Ora la piazza è desolata, se non fosse per le solitarie e rare esposizioni di agenzie pubblicitarie, i mercatini dell’usato, assai radi e per i ragazzini che vi scorrono con le biciclette, o vi giocano a palla.
Qui vi è l’antropologo nostalgico che chiede di riavere la piazza sociale, quella della folla, quella di un tempo, fidando nella sensibilità di chi ancora crede nella cultura; mi rivolgo all’assessore Falotico, alle operose Pro Loco, ai club Lions e ad altri organi impegnati nel settore.
È certamente noto come fenomeni da baraccone, da fiera, da cantastorie, da musici ambulanti, da prestigiatori, funamboli, mangiafoco, venditori di pozioni, guaritori … nel grande repertorio dello spettacolo all’aperto, nel corso degli anni finì con l’essere integrato da tanti altri fenomeni come quelli del circo.
Le vicende delle maschere di Carnevale pare siano un po’ demotivate e quasi andate fuori moda, proprio come è accaduto alle altre manifestazioni di piazza, a quei fenomeni clowneschi, come, fatte le debite distinzioni, li descrive Fellini nel suo film “I clowns”.
Si tratta di dare vita al teatro delle maschere, come fecero, per il Teatro Brecht, Majakovskij, Copeau, Piscator e Dullin …
Occorre quindi che il Sarachella “intelligente” indossi le vesti, ed abbia le parti delle epoche e ruoli da recitare tratti dalle commedie popolari e da personaggi di quelle vicende, nel rispetto delle varie classi sociali, le varie funzioni del lavoro e del mestiere, ma anche quelle della immaginazione, del burlesco, dell’imbroglione alla guisa di un Giuseppe Balsamo, detto “Cagliostro”, dei guaritori e dei ciarlatani. Intanto riempire la piazza, di suonatori di organetto, cantastorie, giocatori delle tre carte, burattinai, venditori di ceci arrostiti e semi, di giochi e magie, donne barbute, nani e giganti, inventori e brevettari, astrologi … tutti questi popolavano la piazza universale, così come recitava la formula di Giovanni di Salisbury, scritta sul Globe Theatre (quello di Shaskespeare). Così il romantico Gautier elogiava questa folla anonima. Ecco che fanno capolino: Maccarone, Pettlangulo con i suoi musicanti, Mancusiedd, Marcia funebre, Zoca zoca, Sparatrapp, Giappone, Treccule, Rubbagaddì, … Nessuno più li conosce, ma l’autore di queste parate è nessuno, tutto è improvvisato, è certamente quello spirito poeta, necessario per una città (ora necropoli), quell’essere collettivo che ha lo spirito di Voltaire e di Byron.
Proprio perché la piazza raccoglieva e conteneva nel suo ampio alveo il teatro degli anonimi, gli estri ed i talenti, i comici ed i venditori, i saggi ed i folli, gli astrologi e gli indovini, quindi le maschere a Carnevale, fu perciò denominata “L’enciclopedia dei poveri”.
«Ecco allora Melquiades presentare ai compaesani di Aureliano Buendìa astrolabi, dentiere, calamite e sestanti. E tra le tante novità del mondo l’imminente scoperta di una lente, potentissima grazie alla quale “l’uomo avrebbe potuto vedere quello che succede in qualsiasi luogo, della terra senza muoversi da casa sua” annunciando così senza saperla la morte della piazza itinerante[2]».
È così che la commedia sociale di un universo sociale ostentava, in tutte le sue forme simboliche, tutta la sua cultura, la mentalità, i propri conflitti, le sue tensioni, la sua invettiva, il suo grottesco comico e romantico.
Anche se la fiera utilizzava la piazza per portarvi merci ed animali, la festa ha finito con coincidere con la fiera. Si è ottenuto così nel passato uno spettacolo grandioso dentro il quale, come in circo si verificava la esibitoria anche e in ispecie dei comici nomadi, dei suonatori di strumenti, di giostre e pianini con il pappagallo porgitore di biglietti della fortuna … Era la chiassosa ed affascinante confusione del più grande spettacolo del mondo tra piazza fabrile, piazza mercato, e piazza teatro.
La fiera e la festa non hanno potuto disputare qualche primato, nel senso che la festa diveniva variabile dipendente del mercato. Il tutto si ritrovava dentro l’occasione di protagonisti che si esibivano ad un pubblico certo e propenso all’applauso.
Basti pensare alla “adombrata” tesi di un Pericle Perali (1939). Si tratta di una simbiosi tra cultura nomade del fierante e quella stanziale della festa, cioè della clientela, della gente, gli spettatori. Ma noi non vogliamo mobilitare tutto questo, né chiediamo, per la piazza, che arrivi la “mongolfiera” di Fellini. Noi chiediamo di far ritornare a rivivere la piazza ed il Carnevale con l’aiuto delle maschere, delle bancarelle, delle bande musicali, del pubblico, del Sarachella e del suo teatro.
[1] Antonio Cederna, “La Repubblica” del 03.06.1988.
[2] Mondo Operaio del 01.02.1989.