di LUCIO TUFANO
Nelle tele di Michelino Pergola, fatte alcune eccezioni, come il tenebroso inverno dell’extramurale San Giovanni, tutto il resto è colloquio, amicizia, folla, alacrità, silenzio.
L’autore osserva le case addossate alle case, i panni stesi, gli asini fermi, le bambine che giocano e cantano l’antica strofa di madama Dorè, quella fiaba da vicoli e da cortile, fatta di anelli, di belle figlie, di statuine, di saltelli col gesso e di castelli disegnati sul pavimento delle strade.
Le scale, i muri, i portoni, gli angoli dolci e antichi sono immersi nel sonno luminoso dei ricordi, in una fase statica del tempo.
Il campo di Padreterno, questo nome contadino che sembra racchiudere in sé tutta la mitologia e provvidenziale rassegnazione ad un destino fatto di malandate, di epidemie, di grandinate, di catastrofi: una esclamazione disperata diventata soprannome o nome nel linguaggio dei contadini duri come la roccia, ossuti patriarchi della terra.
La via Manhes ed il carcere di Santa Croce hanno una apertura libica con la discesa affollata di donne; la via Angilla Vecchia è invece una stradina di campagna, tipica delle campagne avellinesi o irpine e gli inverni vivaldiani morbidi e felpati di silenzio sono sempre aperti al nevischio delle tramontane appenniniche.
Ma Pergola diventa, in una analogia delle sensibilità pittoriche e delle tematiche affini, il nostro Ettore Roesler Franz, il noto acquerellista della Roma scomparsa.
La medesima abilità nel riportare gli spigoli delle case, l’asprezza delle rupi, la dolcezza del paesaggio. Come chi rivive, conoscendo e ricordando, il profondo nesso tra campagne e città; in una osmosi amorosa, la visione dei vicoli e della campagna come ambienti comunicanti.
«C’era il Basento» – scriveva Pergola nel 1974 in un pregevole opuscolo – una serie di note che non sono didascalie ai quadri ma sono un lungo discorso di memoria e di costume «con i suoi antichi mulini a monte, i mulini a palmento e le sue mole mitologiche che macinavano l’oro di Troia, alla sua foce».
E parla dei mercanti dai larghi carriaggi a Portasalza e dell’attesa dei garofani e degli astri di primavera, del tempo delle donne dai verdi corsetti o di Occipite, altro soprannome da leggenda rupestre, maestro d’ascia, dalla gutturale di tuono.
Si tratta di un viaggio breve nella città dei rioni contadini, delle cuntane e delle cuntagnuole, i rioni angusti delle grondaie rotte, delle piogge intermittenti, dei vicoli ciechi, e delle murate, del fuori porta – fuori le mura – delle borgate di fieno, fino ai pagliai, agli abbeveratoi, alle stalle ed ai botui del fiume invidiosi.
Le piazzette della città sono occupate ed animate dalle contadine, figure disegnate da Michelino Pergola che riempiono tele più numerose.
Donne schive, guardinghe, inibite di una casta campagna e di una più casta città dove l’amore ha costituito la vicenda più tormentosa, meno possibile, inconcepibile, e più contrastata – sinonimo di un lusso che non poteva essere ammesso e non poteva convivere con la beffarda e dispettosa avarizia della terra, con la presente sobrietà delle istituzioni, con il rigore degli usi, della mentalità e del costume, con le statistiche povere anche di sesso: “A noi tutto costa il doppio, anche l’amore”; la schiavitù psicologica, il faticoso comportamento dell’innamorato ed una stagione tanto breve, quella del tempo che corre dalle pratoline al papavero, per poter vivere all’aperto e lavorare fuori dalle oscure botteghe – queste le cose che M. Pergola lamenta per la città freddolosa, dai tristi e lunghissimi inverni.
Ma Michelino Pergola reagisce allo squallore dei decenni lontani, i suoi quadri sono specchi limpidi, il vicinato dialoga, i vicoli ed i larghi sono soleggiati, per i giochi contadini le finestre ed i balconcini sono in fiore per gli amori contadini, quasi un antiLevi, che non sollecita vita il riscatto contadino nella fuga verso le fabbriche e gli uffici, ma sollecita una più evoluta esistenza contadina con il benessere, l’igiene e la ristrutturazione del centro storico e della città.
La sua città non è ancora città e la campagna non si è ancora ritirata.
I messaggi di questa sono recepiti per intero ed i segni e le massime rappresentano il sale antico dei padri.
La beffa delle frasche fatta ai reali nel 1881, quando nello spazio di una notte si raccolsero e si piantarono gli arbusti e si inventarono i giardini della Regina Margherita; la preparazione delle miscele d’amore, gli intrighi delle streghe con l’inchiostro di sambuco e l’unguento dei rattaculi; i parati ed i paratieddi di Carnevale; il braccialieddo del 1863, Pasqualino, che fu portato a morte con la redingote, la tuba e le scarpe di vacchetta – fotografato e fucilato per esigenze di cronaca internazionale; il cresciuto trainiere spaccone che gareggiava nel trangugiare decine di piatti e di spaghetti e che poi morì – uno dei tanti giganti falliti che incontrarono la morte buffa, il destino grottesco per un banale incidente eroico, alla guisa di Morgante e Margotte, nel poema cavalleresco di Rabelais; le figlie della dama ambulante, diventate belle per aver mangiato ossi di morto, i biscotti della magrezza.
Tutto questo anima la memoria scritta e dipinta del pittore.
Potrebbe mancare il respiro per le estese pianure battute dai venti, le coste e le scogliere lambite dai flutti, potrebbe colpire la mole in alto proiettata e la massiccia costruzione di ferro della Tour Eiffel, e la maestà della cattedrale di Notre Dame di Parigi, il duomo di Colonia, il Reno solcato dalle navi e dalle chiatte, o l’Atomium fungo procace di Bruxelles o la vastissima Place de la Concorde con l’armonia delle piazze giocattolo di Amsterdam e di Bruges. Si potrebbe pensare all’immenso aggregato di strade e ponti, di canali, di grattacieli e di affollate e trafficate avenues, vertiginosi aspetti del mondo moderno, della metropoli, del macrocosmo.
Ma ci avvince ancora questo angusto microcosmo, suggestivo e profondo, questo infinito scrutato dentro il finito, questo buco, angolo, questa piazzetta e questo vicolo, questi elettroni di polvere che ruotano vorticosi attorno ad un nucleo centrale, nella memoria, questo specchio di cortile, questo stretto, insignificante attico, semplice curva cui il tempo non diede mai tregua.
Questo fu l’amore, ed anche il nostro, di Michelino Pergola, questo fu l’amore di tanti.