SENZA POLITICA RESTA LA VIOLENZA

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Marco Di Geronimo

La democrazia ha gli anticorpi per sopravvivere agli attacchi? È questa la domanda che, in un modo o nell’altro, ci poniamo tutti. L’assalto che i trumpiani hanno lanciato al Campidoglio ha fatto il giro del mondo e acceso luci inquietanti sulla gestione del potere. È vero che il sistema americano è molto distante da quelli europei, ma forse, e per la prima volta nella storia recente, abbiamo ricevuto un esempio di quali pericoli corre la democrazia se finisce in mano al populismo.

Che la parola populismo venga usata a sproposito è indubbiamente vero. Ma per semplicità usiamola anche noi. Negli ultimi anni l’Occidente è stato investito da un’ondata antisistema (spesso reazionaria) e ne ha patito le conseguenze. L’elezione di Trump è stato un punto altissimo di questo movimento, che tra gli altri picchi annovera la Brexit oltre la Manica.

Nonostante i vari movimenti che la stampa definisce populisti siano senza dubbio pittoreschi e spesso incompetenti, è difficile sostenere che si siano sgonfiati. Donald J. Trump avrà anche perso le elezioni per milioni di voti. Ma il divario è molto più risicato negli Stati chiave – e ha comunque vinto diversi swing States. Anche in Inghilterra il fenomeno conosce vette simili. Già in passato abbiamo analizzato la recente vittoria di Boris Johnson, conquistata al grido di Get Brexit Done! (una sorta di Finiamo la Brexit!).

Lasciamo perdere il cosiddetto populismo di sinistra – anche perché che ci sia ognun lo dice, dove sia niun lo sa – e osserviamo alcune caratteristiche di quello di destra. Alcuni l’hanno definito anche sovranismo ma francamente è un concetto che traballa moltissimo. La rivendicazione di sovranità (il potere di decidere quali politiche intraprendere) ha un senso relativo. Nel senso che in tanto significa qualcosa, in quanto c’è qualcuno che questa sovranità la requisisce. Potrebbe aver senso definire sovraniste le destre euroscettiche. Ma contro quale ladro di sovranità dovrebbero contrapporsi Trump e Bolsonaro, questo è un dilemma inestricabile.

Eppure a ben guardare c’è qualcosa di fondato nella parola sovranismo. È un equivoco ma si basa su un elemento reale. Gli osservatori meno attenti confondono l’effetto con la causa: la retorica di chi rivendica la sovranità popolare (a destra, meglio, la sovranità nazionale) è stata il grimaldello che le destre hanno usato per scardinare l’asse politico. Ma se le destre hanno indovinato questa strategia (l’effetto), la causa che la rende vincente è un’altra. È il mondo frantumato in cui viviamo.

Ieri si sono sollevate aspre polemiche per le parole di Giorgio Gori. Il sindaco di Bergamo ha pubblicato un tweet in cui bollava come «proletari» ignoranti e beceri i sostenitori di Trump. Anche qui, un altro equivoco che ha una base fondata: sbaglia Gori a sostenere che l’effetto (l’ignoranza) sia la causa del disastro, quando semmai la causa è che nessuno ha costruito un mondo in cui quelle persone possono avere un posto.

Ma nel momento in cui il sistema non risponde al disagio sociale, è evidente che lo sbocco violento resta l’unica strada politica percorribile. C’è chi lotta per grandi ideali e per battaglie giuste (qualcuno può davvero contestare le rivendicazioni degli afroamericani, che chiedono soltanto d’essere trattati come cittadini?). C’è chi cade preda di altri meccanismi, di altri ideali e di altre battaglie, e senza accorgersene si ritrova al seguito di un Presidente che incita a marciare sul Campidoglio («Io verrò con voi» ha detto Trump prima di tornare su un divano della Casa Bianca).

La violenza alla quale abbiamo assistito ieri è in realtà il fallimento dei populismi, in particolare dei populismi di destra. Il disagio sociale è un fenomeno materiale. Sono vite senza speranza, stipendi bassi, sfruttamento, discriminazione ed emarginazione sociale. Il populismo tenta con la disintermediazione politica di raccogliere consensi (che non vanno più a un sistema che non li merita) nelle fasce svantaggiate della popolazione.

Ma il dramma di chi vi appartiene non si cancella senza risposte concrete, che solo l’apparato di corpi intermedi specializzati della democrazia è in grado di elaborare. Quel dramma si può tamponare con un antidolorifico, una narrazione fasulla grazie alla propaganda online (la notizia che tutti i social network hanno bloccato Trump implica una presa di coscienza del peso politico che le piattaforme hanno raggiunto e dell’alto rischio democratico delle loro manipolazioni). Però non basta a curarlo: si sclerotizza, e come tutti i problemi irrisolti, resta una bomba pronta a esplodere.

E ritorniamo alla domanda iniziale: ha la democrazia gli anticorpi per resistere agli attacchi? L’anticorpo migliore non è mai una procedura giuridica per trasferire il potere da persona a persona (in questo caso, il 25° emendamento, che magari è anche auspicabile attivare). L’anticorpo migliore è una classe politica che sia davvero capace di rispondere alle crisi di sistema. Servono politiche inclusive per sgonfiare il disagio sociale, e anziché fare battaglie per rendite di posizione (per la sanità privata in America o per qualche sgravio alle imprese in Italia) o contro gli interessi delle fasce più deboli (contro patrimoniali e imposte progressive in ambo i Paesi) quel che servirebbe è una classe politica che si accorge di sedere su una bomba atomica. Magari che se ne accorga prima di dover ordinare (come fa Stephen Colbert per criticare Trump): «Il dentifricio rientri pacificamente nel tubetto».

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Sull' Autore

Classe 1997, appassionato di motori fin da bambino. Ho frequentato le scuole a Potenza e adesso studio Giurisprudenza all'Università degli Studi di Pisa. Ho militato nella sinistra radicale, e sono tesserato all'Associazione "I Pettirossi". Mi occupo di politica (e saltuariamente di Formula 1) per Talenti Lucani. Scrivo anche per Fuori Traiettoria (www.fuoritraiettoria.com), sito web di cui curo le rubriche sulla IndyCar e sulla Formula E. In passato ho scritto anche per ItalianWheels, per Onda Lucana e per Leukòs.

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