di Marco Di Geronimo
Oggi è semplice dire che il PD è stato un errore clamoroso, ma non era semplice dirlo nel 2007. Ed è stato fondato infatti da migliaia di persone, con milioni di elettori disposti a parteciparne le primarie fino al 2012-2013. Per comprenderne la crisi, è forse il caso di fare un passo indietro e ripercorrere il ragionamento che portò alla sua nascita.
L’idea di base è questa: occorre costruire un’alternativa politica forte al berlusconismo, che è riuscito a insediarsi nel Paese con una coalizione intelligente, ampia e articolata.
Stante l’irriducibilità di Rifondazione e delle altre frattaglie (che complicano i tavoli delle trattative), l’unica opzione è distruggerle. Come? Con la forza del voto utile per un partito molto più grande e competitivo, capace di rendersi indipendente da loro.
Ma come costruire quel partito grande? I DS sono il perno dell’Ulivo ma, dopo i Governi D’Alema e le Segreterie di Veltroni e Fassino, la loro leadership è assai delegittimata nel Paese, contestata dal girotondismo. Sono incalzati a sinistra dai neocomunisti, sempre competitivi: sono ancora milioni le persone disposte a scendere in piazza per difendere l’articolo 18. Anche a destra il confronto si fa stressante, viste le pretese (suffragate da una certa indulgenza elettorale e da un grande credito nei salotti che contano) di Prodi, di Rutelli, e in passato di Dini.
Implausibile, in quel momento, uno sfondamento serio nel blocco sociale del centrodestra. Gli elettorati della Lega e di Forza Italia sono molto lontani dal centrosinistra: un mix di fabbrichette, commercianti, sottoproletariato, autonomi… Insomma, gente che ha un orizzonte di vita incompatibile con un Paese che, se pure interviene meno in economia, comunque vuole che almeno gli si paghino le tasse per finanziare qualche politica sociale.
Nel bipolarismo l’Italia è appunto polarizzata, anche plasticamente nelle televisioni (c’era chi vedeva Striscia e chi preferiva Un posto al sole). Lungi dall’essere liquido e smobilitato, il Paese si articola in blocchi sociali identificabili, ciascuno con riferimenti politici precisi dai quali non si distacca facilmente. Il flottante del voto di opinione, inoltre, segue pulsioni meno istintive e identitarie di oggi. E questo è un problema per il centrosinistra di allora. L’elettore progressista del 2007 è sollecitato da un insieme di voci autorevoli molto più complesso e credibile dell’attuale, che mettono in grande difficoltà la dirigenza ulivista.
La strada per vincere le elezioni è obbligata: dividere la destra, primeggiare nelle alchimie elettorali, e soprattutto recuperare la presa sull’opinione pubblica. L’idea, per recuperare tempo, sparigliare le carte e rilanciarsi (soprattutto sul piano mediatico), è una fusione a freddo dei partiti dell’Ulivo, sulla carta primo partito italiano e in prospettiva unico partito del centrosinistra.
La contiguità antropologica tra gli apparati dei DS e della Margherita, cresciuti entrambi durante la Prima Repubblica, garantisce una certa capacità di intesa, peraltro corroborata da anni di dialogo nell’Ulivo. In quel momento la floridità del mercato e il desiderio di emanciparsi dal Novecento rendono assolutamente plausibile la confluenza. La nascita di un unico contenitore, per scelta ideologicamente confuso e chiamato a definirsi ogni volta ai singoli appuntamenti elettorali, sembra moderna e vincente. Un contenitore analogo, proprio in quei mesi, marcia verso il derby rivoluzionario e tanto “inspirational” tra una donna e un nero per la Presidenza degli Stati Uniti.
L’operazione aveva avuto un certo successo già a partire dalla lista Uniti nell’Ulivo alle europee del 2004. Ma Berlusconi, dopo aver perso le politiche del 2006 in modo piuttosto rocambolesco, risponde senza esitazione al processo costituente del PD con un nuovo partito di centrodestra: il PDL.
Non riesce a tirarci dentro Bossi e Casini. I leghisti hanno una identità settentrionale ancora molto forte, non negoziabile (Salvini e la svolta nazionalista sono ancora molto lontani). I cattolici potrebbero aderire, ma la nascita del PD è una dichiarazione di guerra alla sinistra radicale. Musica per le orecchie di Cesa, perché le quotazioni di un’alleanza tra PD e UDC (avviata in via sperimentale in molte Regioni, tra cui la Basilicata) schizza alle stelle. Senza la sinistra-sinistra, i voti dei centristi valgono oro per il centrosinistra, e di riflesso per Berlusconi. Dunque l’UDC resta autonoma per darsi alla politica dei due forni. Solo Fini raccoglie l’appello di Berlusconi. D’altronde, sono vent’anni che cerca un approdo per il suo partito, a lungo estromesso dal potere e desideroso di restarci a pieno titolo.
La mossa di Berlusconi è ovviamente geniale, come sempre quando si parla del Cav., e assicura proprio il risultato aspirato invece dal PD: la vittoria per forza dimensionale, il voto utile da destra e da centro, e la svalutazione del centrosinistra (che alle elezioni del 2008 taglia fuori la SA di Bertinotti in un momento in cui è piuttosto alta nei sondaggi, dando subito l’impressione della sconfitta sicura).
Il PDL è destinato a naufragare ma il PD resta in piedi, anche un po’ artificiosamente. Il troncone dei DS si riprende il giocattolo dopo la parentesi veltronian-franceschiniana, provocando una prima fuoriuscita di quadri (con la scomparsa di Rutelli). Poi segue la parabola renziana, che nei fatti ne smantella l’apparato e rende ingovernabile il prosieguo, tanto da Zingaretti quanto da Letta.
Adesso il Congresso autoproclamato costituente oscilla tra discussioni filosofiche sull’identità e lo scontro di corrente molto pronunciato tra Bonaccini (probabile neosegretario da febbraio) e Schlein, con altri eventuali candidati sullo sfondo. Ma il punto reale lo ha colto Celeste Ingrao in un suo editoriale di qualche settimana fa, pubblicato su Strisciarossa. Nemmeno la Schlein, che pure presenta un audace programma socialdemocratico, risolve il problema di fondo del partito: qual è la sua analisi di classe?
A dirla altrimenti, il PD nasce (filosoficamente e strategicamente) dall’idea che le classi lavoratrici e l’elettorato d’opinione possano dare voti a un progetto di trasformazione del paese che tenga dentro lo Stato, la grande impresa e i diritti dei lavoratori attorno alla crescita della produttività, a scapito del modello latifondista che invece caratterizza il centrodestra italiano ed entusiasma i settori meno avanzati dell’economia.
Oggi le classi lavoratrici non votano, l’elettorato d’opinione subisce il fascino di Calenda e Conte, e la grande impresa si sente messa in discussione dal centrodestra internazionale ed è disposta a scendere a compromessi solo dietro ingenti garanzie. Quale progetto politico occorre mettere in piedi per recuperare forza elettorale (indispensabile per vincere le elezioni) e garantirsi credibilità politica nei salotti che contano (indispensabile per governare)?
La domanda non troverà certo risposta in questo Congresso del PD, però è un quesito stimolante sul quale è opportuno interrogarsi. Per qualsiasi forza politica, infatti, il tema non è l’identità filosofica o il programma tematico, se posizionarsi al centro o alla sinistra: il punto è sempre la strategia con la quale si intendono trasformare i propri valori in realtà. Che il PD non voglia sceglierne una è un problema del PD. Quali strategie politiche sono percorribili nel Duemila, invece, è un problema che interessa tutti noi.