LA FORMAZIONE, DA “SAPER FARE” A “SAPER ESSERE”

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giuseppe romanielloGIUSEPPE ROMANIELLO

Mi è capitato di leggere recentemente che i modelli per il processo di formazione degli esseri viventi sono da un lato il cristallo (immagine d’invarianza e di regolarità di strutture specifiche), dall’altro la fiamma (immagine di costanza d’una forma globale esteriore, malgrado l’incessante agitazione interna)”. Così diceva Italo Calvino.

Ed è capitato anche a me, come capitava a Calvino, di osservare due forme di bellezza perfetta, da cui lo sguardo non sa staccarsi, la fiamma e il cristallo, e di associare a questa contrapposizione biologica, una riflessione sull’apprendimento. Fiamma e cristallo sono due modi di crescita nel tempo, di spesa della materia circostante, due stili di vita, due modalità di sviluppare apprendimento; l’una capace di generare l’ordine dall’energia; l’altro, invece, espressione paziente dell’organizzazione che si consolida.  Entrambi introducono la trasformazione nelle cose del mondo; il cristallo ci rimanda alla lenta costruzione della perfezione, con il rischio che diventi disarmante immutabilità della stessa; la fiamma richiama alla nostra vista il brivido della passione, con il timore che tutto possa scivolare nell’ininfluenza del fuoco della paglia. A quale delle due forme associamo la formazione che progettiamo, che implementiamo, che valutiamo? Alla fiamma o al cristallo?

La formazione ha significato solo se dimostra di essere in grado di anticipare, accompagnare e sostenere le trasformazioni del lavoro; etimologicamente, il significato di trasformazione ci riporta ad un’idea di cambiamento, nello specifico, ad un mutamento nella forma, ma non solo. Eppure la “buona” formazione sta dentro le trasformazioni del lavoro, attraverso ricombinazioni, le aggiunte e le sottrazioni dei contenuti del lavoro; osserviamole queste trasformazioni.

Nuovi e diversi mondi del lavoro stanno emergendo; da tempo va indebolendosi il paradigma del “mondo della produzione” fordista che aveva caratterizzato gran parte del Novecento. L’immagine, a noi così familiare, delle nostre città circondate da periferie industriali, è un’immagine sempre più destinata a scomparire; oggi il lavoro nasce e cresce in luoghi a volte imprevisti, luoghi che facilitano la relazione tra le persone, lo sviluppo della creatività, il contatto con il mondo.
La tendenza è ormai chiara: i luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere importanza, mentre le città popolate da lavoratori interconnessi e creativi diventeranno le fabbriche del futuro; questa evoluzione genera diversi paradossi, fra cui il fatto che la nostra economia globale diventerà sempre più locale. Questo profondo cambiamento in tema di lavoro, è riassumibile nel paradigma del knowledge worker, che identifica nella crescita dei contenuti cognitivi e di creatività del lavoro, l’implicita mission dei processi formativi; in altre parole, se conoscenza e creatività rappresentano i contenuti cruciali della prestazione lavorativa, la formazione, in quanto orientata allo sviluppo delle persone e delle loro capacità, diventa la principale leva di cambiamento delle organizzazioni e dei contesti socio-economici.

Recenti analisi in materia di trasformazioni del lavoro dimostrano che accanto alla dimensione del “saper fare”, tipica del lavoro tradizionale, altre capacità siano sempre più richieste, da quelle cognitive e di creatività a quelle relazionali e di intraprendenza, che fanno parte di una più innovativa dimensione del “saper essere” nelle attività di lavoro.

Ciò consegna al sistema formativo italiano, nelle sue articolazioni di sistema di istruzione, formazione e lavoro, la sfida del potenziamento – sia in termini quantitativi che qualitativi – dell’offerta di formazione ed istruzione nella qualifiche tecnico-professionali. La sfida è quella di attrezzarsi per dare risposte al fenomeno dello skill shortage, ossia alla mancanza di figure professionali dotate del know-how richiesto dal mercato. Per la prima volta nella storia, il fattore economico più prezioso non è il capitale fisico, o qualche materia prima, ma la creatività; nel capitalismo della conoscenza, il lavoro tende sempre più a caratterizzarsi per la prevalente dimensione del “saper essere”, rispetto a quella del “saper fare”.

Se la dimensione del saper essere nel lavoro tende a espandersi, soprattutto nelle realtà ad alto costo del lavoro, la formazione torna ad essere strategica, purché incida essenzialmente sui tre livelli di crescita delle capabilities – per dirla alla Amartya Sen – dei lavoratori: sullo sviluppo delle persone e delle loro capacità cognitive e di creatività; sull’aumento delle capacità relazionali, ovvero cooperazione e collaborazione; sull’intraprendenza, ovvero autonomia e responsabilità.

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