VERSO SAN GERARDO: AL BAZAR DEL GRAN TURCO

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LUCIO TUFANO

 

Il potere fertilizzante della luna alimenta la febbre della terra che dalla Candelora ha già avviato nuova linfa alle radici. È per questo che hanno lo spirito nel legno i lauri, i bossi, i salici e nel fuoco crepita e si contorce il sarmento: l’aroma delle resine che bruciano di sera a rievocare le divinità agresti. Un antico legame dell’albero col fuoco nel folklore e nel rito della rigenerazione. Nutre le zolle il potassio della cenere. Un boscaiolo mulattiere sporco di radici e di peli, dalla rude apparenza silvestre rappresenta la tradizione dei legnaioli e dei carbonai. Dalla fine del Medioevo rivivono nelle feste e nelle sfilate di Carnevale e dei Turchi le ascendenze lontane degli uomini dei boschi, come coloro, che provengono dai miti e dalle leggende: Chiodd Chiodd, ù muzz, Civuddine, Schiff, Trenta carrine, zòca zòca, tizzone, negùs, tronc tronc … Così il gioco delle maschere nasce proprio dentro il rito e si lega all’uomo dei boschi, una sorta di demonio disperato e grottesco, legato al lupo, al mulo e agli animali del bosco: il suo essere arrogante, vigliacco, il suo essere cafone e scurrile… I turchi sono i nostri arlech dalla risata spaccata e brutale, il nostro buffo teatro metà campagna e metà urbano.

Vi è grande confusione nelle strade del centro. Deprecabili, affascinanti ed ammirevoli le antiche usanze. La folla tumultuosa del contadiname, in abito di velluto o in costume che emana odore di sudore, di stalla e di percalle, si riversa lungo la via Pretoria a condividere i lazzi volgari e pittoreschi e gli sberleffi. Accompagna quella sarabanda infarcita di turpiloquio e di risate, l’assordante ritmare di tamburelli il fragore delle trombe, il chiasso vociare, il brusio dei fischietti, lo scoppio dei petardi e il malinconico, disperato strimpellare di suonatori ambulanti e con le grida dei venditori di “andriti”, noccioline e castagne secche, prugne e carrube, di frutta e verdura, di olive e gassose, peperoni sottaceto e acciughe. Cortine di fumo acre si levano dai falò che ardono e danno bagliori ai muri. Tra i fischi assordanti, dispettosi e irriverenti dei trainieri e alla “caprara”, si avvicendano i primi cavalieri. Vale per la memoria del tempo remoto, ma vale per i tempi recenti, per chi vede crescere attorno a sé i vecchi borghi, i rioni e la città e di essa è partecipe con il ricordo olfattivo, visivo ed auditivo.

“Se la primitiva vis formativa d’una città è innata e presenta quei caratteri genetici che le derivano dal suolo , dalla natura, dalle condizioni metereologiche, dal clima, dalla latitudine, dalla situazione orografica, che saranno fondamentali per l’ulteriore sua evoluzione, che sono acquisite in tempi successivi” e che riguardano la sua cultura, le sue tradizioni, e la sua teatralità, il suo modo di essere, i suoi personaggi, le sue maschere, … i suoi sapori, i suoi fatti e racconti… Storie di città antiche fatte di colori ed epoche, epopee e gonfaloni, governi, monarchie e repubbliche, costumi preziosi e parate militari, piazze del mercato con gli imbonitori urlanti e tendoni, fiaccolate, processi e fuochi di artificio. Ognuno di questi segni non è a caso, tanto per divertirsi, ma per richiamare l’attenzione, della folla in un preciso argomento. Ora si riaccendono le insegne, le vetrine, luci calde a caratteri grossi e bianchi, le salumerie, le drogherie, i bar ei caffè le gioiellerie, le cattedrali delle banche moderne che diffondono una luce rassicurante, i palazzi, l’illuminazione dei fanali, le automobili.

Ora arrivano trafelati dalle campagne, subito confortati dalle luci che brillano in lontananza, che si accendono e spengono con colori familiari, i verde-giallo, rosso-blu. Entrano nella città e subito sono informati di cose che già sanno: l’ora, la temperatura, la partita, l’albergo, il cinema, il ristorante, mentre è ancora difficile capire quale sono i bivi, le accorciatoie che conducono da Piano di Zucchero a Tiera di Vaglio, o da Lavangone ai Piani del Mattino, o da Murate al cinema Ariston, al Due Torri, ai magazzini di Lamorgese e dell’Upim, alla Standa, ai Supermarket. Allora, quando arrivavano i Turchi, con i loro bambini assonnati sulle giumente, e le torce, la città era spenta, senza insegne luminose, i negozi bui e tetri come uffici postali o ambulatori, avvisi illeggibili attaccati alle porte di legno, strade oscure con radi lampioni che appena illuminavano se stessi e dentro le case scoppiettava la legnerei camini, e dal solaio pendevano lardo, pezzente, salsiccia e capicollo … e il vento bussava alle porte, alle finestre, e squassava i muri e i tetti … È da questa continuità, da questo riproporsi di riti antichi, da questo ingresso della campagna ridente e invasata, dalla capacità di compiere, nell’era elettronica, una traversata spettacolare nella città, dentro le sue strade, il suo centro storico, le facce annerite, i muli, i fiumi,  rumori e odori che si percepiscono, curiosità, sentimenti, senso di attesa della gente,  per quanto si ripete nella memoria e nell’attualità. È da questa continuità che viene garantita “genuinità” di un momento ostentato come patrimonio e capace di proporre pagine di folklore autentico e di tradizione genuina destinate, l’una e l’altra, a caratterizzare una città e una regione. Viene definita l’anima del commercio, ma può anche essere chiamata l’anima della città. È l’espressione più immediata di ogni aggregazione urbana, di ogni comunità che sia viva e convinta dei propri valori, delle sue caratteristiche  tradizioni, del suo centro storico, della sua storia. La sfilata dei Turchi, riportata nei posters, nelle cronache antiche della città e nei servizi giornalistici e della RAI TV, e anche in un noto francobollo della serie emesso dalle Poste Italiane, può argomentare con l’ausilio determinate di un art director, e di un copy-writer, una caratteristica importante della città, dove (nella serata del 29 maggio) ogni anno si svolge questa festa della maschilità popolare, con i contadini e i mulattieri dotati di un somatismo selvatico e umorale che sfilano minacciosi e beffardi sui muli, con baffi ispidi, fiaschi di vino e torce. La sfilata dei turchi con i turchi invasori e catturati ad un tempo e il gran turco ridotto in sudditanza dagli angeli e da San Gerardo, e che, sebbene, in cattività, suscitano apprensione e paura, è un fatto pubblicitario della città, della Chiesa, del Cristianesimo che trionfa sugli infedeli, mori, saraceni e turchi.Maschi contadini e mulattieri sfilano come cavalieri e le donne dell’Agatone, le rosse di Avigliano e le brune di Picerno e quelle di Lavandone sono venute ad ammirarli , nei loro colorati e dagli sguardi truci. La pubblicità non è un prodotto moderno, nato con l’era industriale, c’è sempre stata, sin da quando, da tutta la regione e anche dalle altre regioni la gente veniva a Potenza ad assistere alla sfilata, ed ha adottato di volta in volta i canali e i mezzi esistenti. Il principio è sempre lo stesso, lanciare un messaggio collettivo, una comunicazione di massa. Questa vocazione, questo desiderio d’oriente, questo spicchio di Casba dai vicoli umidi e tortuosi, semibui di grondaie e vecchie ragnatele. Non si è mai pensato per esempio a dare il nome di “gran turco” ad un prodotto dolciario, una pietanza tipica potentina, una amaro locale, una cantina, un caffè, un night club situato nel cuore del centro storico – una libreria dell’usato – una caratteristica maschera della nostra commedia dell’arte. Si sarebbero anche potuti fabbricare i turchi contadini in ceramica, o in peltro, o in argento, con smalti appositamente colorati … fabbricare statuine o pupazzetti in terracotta o in stoffa, riproporre le sfilate in miniatura, raffiguranti i mulattieri o i contadini camuffati da turchi, la carrozza, la nave, e il Santo in materiali diversi, in legno ceramica ed argento. Se vi è una parte del nostro artigianato che sia in grado di produrre questi manufatti, e lo stemma della città, le espressioni, questa è l’occasione buona …” i loro vessilli portano code di yak o di cavallo, i gagliardetti sono delle lance sormontate da una testa di lupo dorata o dall’effige di qualche altro animale”. O sono dei cavalieri di terzo e quart’ordine, armati di scimitarre e grinta e fanno parte di una “armata brancaleone”.

La ragione prima di tante facce mimetizzate non può che essere una sola: la volontà di ottenere l’abolizione o sospensione della personalità nativa; l’assunzione volontaria di un’identità diversa, non riconoscibile, e tale da conferire a chi la porta una caratteristica del tutto nuova quasi sempre conturbante o perché grottesca o perché minacciosa e con una qualità super o sub-umana e magica. Anche le figure di un premio come quelle famosissime della Perugina, dove il feroce Saladino venga sostituito dal gran turco, e poi il principe, i turchi i mulattieri, gli angioletti sui cavalli, San Gerardo, la nave, il carro, San Gerardo di Marmo, il Duomo, la mano benedicente con tre dita, San Gerardo nero, etc., possono rappresentare quelle più importanti per il numero di punti assegnati a ciascuno di esse. L’etichetta, e più in generale la confezione dei prodotti sono state a lungo considerate dai pubblicitari come uno spazio aperto, fatto apposta per dare sfogo alle proprie doti di estro fantasia e tecnica grafica, di cultura e di Folk. Un teatrino delle marionette: Sarachedda, l’uomo tubo, chiodd chiodd, miseria, e il “gioco del Gran turco” una bella mappa del tragitto per la città con la partenza e l’arrivo, le soste, i ritorni le penalità da pagare e le caselle premio. Una città, insomma, fondata dai turchi, un sultanato, che avrebbe dovuto chiamarsi sultania e che invece si chiamò Potenza proprio per significare la forza virile dei suoi abitanti, l’imperante maschilismo, la potenza del principe, il potentato dei suoi notabile e dei suoi cittadini borghesi, il sultanato e il potentinato delle contrade, la vastità, la estensione delle proprietà e la sfera di competenza della giurisdizione? Gli uomini sono taciturni, ombrosi, proprio come i turchi e i commercianti di un tempo con le papaline e le pantofole, con i baffi e il sigaro in bocca nella penombra delle botteghe, dietro i banconi, o appena percettibili tra gli scaffali e gli stigli, facevano parte di una razza antica, metà bianca e metà musulmana, ai quali piaceva tanto usare il linguaggio sussurrato e osceno,  di fare sommesse proposte lusinghiere, la profferta lasciva alla serva del ragioniere o alla ragazza che entrava per una matassa di lana o un rocchetto di filo cotone. È il debutto dell’anonimato popolare: mulattieri, trainieri e boscaioli, che hanno indossato maschere grottesche come usbergo, e perché hanno facce annerite, baffi posticci e barbe finte, l’espressione gaglioffa. Una ingenua fedeltà alla leggenda, con costumi ricavati dalle scorte di teatri nazionali o di Cinecittà, con modelli delle rassegne epocali. Era opportuno invece riprendere i cafoni e i loro muli, in una scorreria di strade, vicoli e rioni, compiuta dai lazzaroni delle contrade. E perché i turchi arrivano di notte. Maschere turbanti e cimieri: è d’uopo qui ricordare anche la maschera rinascimentale del buffone, la narrenkappe, il cappuccio del pazzo, dalla forma appuntita e dalle orecchie asinine, che simboleggia lo scherzo, il bizzarro, la pazzia che usavano i buffoni e i giullari. Protetto dalla narrenkappe al buffone era consentito ogni irriverenza verso il padrone, grazie alla immunità che gli era consentita dal cappuccio. Questo accade anche al camuffamento turchesco che in una serata di brio e di libertà può giocare una finzione guerresca del sadismo invasore che insidia le porte e le finestre. Il gran turco è il jolly del nostro gioco urbano, la maschera principale del nostro folklore. Ironia e solennità contadine ormai occupano la città.

 

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Sull' Autore

LUCIO TUFANO: BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE “Per il centenario di Potenza capoluogo (1806-2006)” – Edizioni Spartaco 2008. S. Maria C. V. (Ce). Lucio Tufano, “Dal regale teatro di campagna”. Edit. Baratto Libri. Roma 1987. Lucio Tufano, “Le dissolute ragnatele del sapore”, art. da “Il Quotidiano”. Lucio Tufano, “Carnevale, Carnevalone e Carnevalicchio”, art. da “Il Quotidiano”. Lucio Tufano, “I segnalatori. I poteri della paura”. AA. VV., Calice Editore; “La forza della tradizione”, art. da “La Nuova Basilicata” del 27.5.199; “A spasso per il tempo”, art. da “La Nuova Basilicata” del 29.5.1999; “Speciale sfilata dei Turchi (a cura di), art. da “Città domani” del 27.5.1990; “Potenza come un bazar” art. da “La Nuova Basilicata” del 26.5.2000; “Ai turchi serve marketing” art. da “La Nuova Basilicata” del 1.6.2000; “Gli spots ricchi e quelli poveri della civiltà artigiana”, art. da “Controsenso” del 10 giugno 2008; “I brevettari”, art. da Il Quotidiano di Basilicata; “Sarachedda e l’epopea degli stracci”, art. da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 20.2.1996; “La ribalta dei vicoli e dei sottani”, art. da “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Lucio Tufano, "Il Kanapone" – Calice editore, Rionero in Vulture. Lucio Tufano "Lo Sconfittoriale" – Calice editore, Rionero in Vulture.

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