Ho sempre pensato che il dolore potesse e dovesse rappresentare per tutti una sorta di capolinea. Una fermata obbligata dove, inevitabilmente, ripensare e ripensarsi. Ripensare guardandosi indietro anche per un solo attimo e ripensarsi rispetto a quell’attimo, a volte eterno. I tempi che stiamo vivendo hanno per certi versi rimodulato il concetto di dolore, come molti altri status in cui inciampiamo ormai quotidianamente, sebbene i cambiamenti occorsi pare abbiano intaccato anche valori probabilmente indiscutibili. Fino a qualche anno addietro nessuno di noi avrebbe immaginato di poter assistere al degrado di quei principi sui quali uomini e donne costruiscono la propria struttura intellettiva, razionale ed emotiva. La dignità, il rispetto, l’onestà, la morale, l’etica e via discorrendo sembrano diventati reperti archeologici rinvenibili in rare occasioni che fanno pure scalpore e, mediaticamente, audience. Rarità, per dirla in una parola. Il quotidiano, diversamente, è ridotto ad una sorta di cloaca dove l’(anti) uomo scarica tutte le sue frustrazioni, piccole o grandi che siano, senza alcuna selezione, senza pensare che qualcosa possa essere sottratta e ridimensionata a quelli che rappresentano da sempre gli inconvenienti della vita vissuta. Tanto più che adesso, l’uso incontrollato dei social offre la possibilità di sbandierare tutto ciò che per anni era rimasto sottaciuto, anche per pudore. E’ probabilmente la vergogna che manca, uno dei freni che una volta riusciva a fermare pure il pensiero malsano e non solo l’azione, per il solo fatto di sentirsi giudicati dagli altri e additati nonché condannati, seppur simbolicamente vivendo una colpa come se fosse realistica. La prospettiva di un tribunale familiare o ridotto a pochi intimi era sufficiente a scoraggiare qualsiasi programma più o meno scellerato. Oggi la gogna, che ha assunto proporzioni apocalittiche, pare diverta chi vi partecipa da spettatore abilitato a dire la sua sempre e comunque, e chi ne è oggetto, potendo sciorinare senza freni, riscuotendo favori anche sulle azioni più bieche giustificate da una platea spesso invidiosa di quel momento di celebrità ma presente con le sue invettive. Altro che vergogna, dunque. A nessuno balena per un attimo l’idea di sottrarsi per pudore alla sequela di accuse, menzogne, colpi bassi, ipotesi e volgarità che nemmeno la peggiore delle arene ha mai contenuto. E’ facile che sui social a qualcuno venga l’idea di costruire un evento come lo si fa per i compleanni o le presentazioni culturali collezionando adesioni e consensi. Un orrore. E ritornando sul dolore, che avrebbe dovuto rappresentare la linea di bordo, insuperabile, il muro che ti rispedisce nel mondo reale per riconsegnarti la consapevolezza della vita, ecco che tutto ciò che per un attimo avevamo presumibilmente riposto in questo sentimento viene sbaragliato, perché conta altro. Il dolore come prova, come riscoperta della propria forza che in quel momento sembra mancare, di riscatto dalle proprie debolezze che rappresentano pur sempre l’altra faccia delle (pesudo)certezze di cui siamo portatori sani, lascia il posto all’affermazione di quel livore usato per giustificare mancanze (degli altri) deresponsabilizzandoci, rendendoci controfigure o addirittura comparse della propria vita. E allora accade che dinanzi alla morte tragica di una figlia, dove il dolore dovrebbe annientare almeno all’inizio, almeno fino a quando il processo dei metabolizzazione del lutto si compia per restituire una parvenza di normalità quindi dopo molto tempo, non solo si riesce a gestirne l’aspetto “pubblico” argomentando in ogni dove gli accadimenti, cosa che dovrebbe appartenere solo agli inquirenti e che già richiederebbe una grande volontà, ma si costruisce anche una azione di vendetta personale verso i responsabili di ogni ordine e grado. Mi chiedo, quindi, se la prostrazione naturale che ti spedisce direttamente all’inferno senza possibilità di ritorno perché perdere un figlio è l’inferno, al netto della tragicità dei fatti che amplifica i contorni della morte, meriti come momento di affrancazione seppure temporaneo la possibilità di pensarla una vendetta. Può il dolore, devastante, ricaricare in poche ore l’odio verso chi ti ha privato della cosa più preziosa o chi ha contribuito e avallato un atto così terribile? Come è possibile che la mente dell’uomo non riesca a riconoscere più il dolore come legittimo, intimo ed esclusivo, perché soppiantato dalla illegittima, seppure naturale volontà di distruggere la causa del dolore medesimo? Non voglio credere ai riflettori che dànno vigore alla smania di spiattellare vecchie ruggini naufragate in un delitto, e ai quali si affida anche l’epilogo per dimostrare quanto si è famiglia in queste occasioni mentre si ascolta il narcisismo della visibilità. Perché, inevitabilmente, i riflettori si spegneranno come tutti gli show orrendi ai quali assistiamo e il dolore rappresenterà l’unico vero e reale atto di giustizia verso un affetto perduto in attesa che si compia quella dell’uomo.
ANCHE IL DOLORE PERDE LA PRIVACY
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