“A lui a sua volta Nausicaa dalle bianche braccia rispose:
‘Straniero, poiché non somigli ad un uomo né volgare né stolto,
Zeus Olimpio in persona distribuisce la felicità agli uomini,
a buoni e cattivi, come vuole, a ciascuno;
e a te diede questo destino e bisogna che tu lo sopporti comunque.
Ma ora, poiché arrivi alla nostra città e alla nostra terra,
certo non sarai privo di veste né di qualcun’altra
delle cose di cui è giusto [che non sia privo]un supplice sventurato che ci venga davanti.”
Non bastasse il riferimento evangelico del titolo, questi sono i versi di Omero [Odissea, VI 186-193] che racconta di come Ulisse, un naufrago sconosciuto, sia stato accolto nella reggia dei Feaci, sfamato, vestito, consolato e solo dopo gli sia stato chiesto il nome, la sua storia, cosa lo avesse condotto lì.
Ecco, nella Basilicata che vorrei si fa tesoro dei valori cristiani (quelli veri) che tutti abbiamo o dovremmo avere, delle nostre radici mediterranee e magnogreche, della nostra storia di emigrazioni in tutto il mondo. L’obiezione più grossa che si fa quando si raffrontano le vecchie migrazioni con le nuove è che in America si arrivava con un visto, non da clandestini. Ammesso che sia stato vero per tutti (e ho i miei dubbi), è solo una questione di migliori leggi e di organizzazione. E allora si organizzi, con l’aiuto dello Stato, delle (molte) risorse messe a disposizione dall’Unione Europea, la migliore accoglienza possibile dei migranti provenienti da tutto il mondo. E non si tratta solo di spirito cristiano: accogliere bene, con un piano, una visione di futuro, tornerebbe tutto a nostro vantaggio.
Esistono modelli di integrazione nei piccoli paesi che li hanno salvati dallo spopolamento endemico. Esiste, dunque, un modo fattivo e proattivo, umano ed al tempo stesso utile, di accogliere ed integrare. Accade a Riace, in Calabria, ma mi dicono stia accadendo anche a Montemilone, nella piccola Basilicata. Modelli che andrebbero studiati e adattati al contesto. In ognuno dei nostri micropaesi, ne sono certa, esistono scuole chiuse, case vuote, campi abbandonati, mestieri dimenticati. Forse si potrebbe almeno provare una sperimentazione, alla quale siano chiamati a partecipare i Comuni che vogliano farlo. I fondi pubblici potrebbero essere utilizzati per riattare case, fare formazione, acquistare attrezzi e strumenti, insegnare la lingua. Molto, moltissimo, dovrebbe essere investito in mediazione culturale, in studio e costruzione di nuove comunità che non siano imposte, ma stratificate giorno dopo giorno, con una regia pubblica attenta e visionaria.
E – lo ripeto – non si tratta solo di spirito cristiano. Tre o cinque nuove famiglie che si trasferiscono in un paese a natalità pressochè azzerata significa riuscire a tenere aperta una scuola elementare, salvare posti vicino casa di maestre, costruire in un ambiente protetto nuovi cittadini senza la rabbia delle banlieu. Riaprire una bottega di barbiere, o di falegname, o un piccolo negozio di alimentari, magari mobile, significa riattivare un circolo virtuoso che potrebbe attirare compratori e clienti anche da paesi vicini. Rendere di nuovo produttiva una campagna abbandonata, un allevamento di ovini o bovini o suini, una apicoltura, con produzioni attentamente scelte, e mercati di vendita che usano le potenzialità del digitale significa entrare in un circolo virtuoso le cui potenzialità sono tutte da esplorare.
Senza contare il beneficio in termini sociali che potrebbero derivare dal mischiare abitudini, cucine, usanze, feste, modi di parlare e di stare insieme. Di cosa c’è da avere paura? I leghisti, soprattutto al Sud, non vogliono sentirselo dire, ma noi siamo GIA’ il frutto di incroci millenari fra razze. In queste terre sono passati e rimasti a lungo greci, svevi, francesi, spagnoli, arabi, bizantini, albanesi. Siamo già “bastardi”, la pura razza non esiste, sicuramente non nelle nostre contrade, non nei nostri dialetti, così vari e variegati pur in una regione così piccola proprio perchè frutto di dominazioni differenti ed incrociate. Fate il test del DNA e provate a verificare quanta parte di voi viene da altri pizzi di mondo. Per una volta, invece che mescolarci con dominatori, potremmo mischiarci con migranti veri, esseri umani che scappano da vite impossibili alla ricerca – come tutti noi – di “a decent job, or a helping hand“, come canta Bruce Sprigsteen.
Certo, è un esperimento le cui sorti sono del tutto incerte. Può fallire, e nel peggiore dei modi possibili. Ed è esattamente questo, e non altri, il motivo per il quale nessuna amministrazione pubblica regionale ha mai voluto metterci mano. Nessuno vuole firmare una possibile sonora sconfitta. Ma nella Basilicata che vorrei la paura di fallire non esiste. “Tenta. Fallisci. Tenta ancora. Fallisci meglio” vale anche per le amministrazioni pubbliche, alle quali andrebbe il mio incondizionato plauso per averci almeno provato. E nella visione, nella programmazione a lungo termine, potrebbe esserci anche una dignitosa exit strategy nel caso il modello proposto non riesca ad attecchire, che tenga conto del fatto che accolti ed accoglienti restano, pur sempre, esseri umani.
3 – POLITICHE DI ACCOGLIENZA