Ogni città una storia! Naturalmente questa volta si tratta dei sepolcri del gusto, delle pietanze che hanno caratterizzato vicoli e famiglie, che hanno dato soprannomi e soddisfatto avventori e viandanti, odori che si sprigionavano dalle stamberghe e dalle padelle poste sul fuoco di fornacelle rudimentali, alimentate da carbone di legna, odori di olio fritto e peperoni, di “pizzaiole”, di zeppole, di panelle appena uscite dagli antri dei forni dalle bocche rosse di fuoco.
Ora la città ha pulsioni gastroregolate, che si omogeneizzano in una meta-cucina che potrebbe non essere più la nostra.
Dove la maionese è diventata salsa piccante e la rucola si è fatta prezzemolo. Scomparse le vecchie cantine e trattorie, le trafelate cucine di brodi, di posate ai tavoli da osti con maniche rimboccate, scamiciati e con grembi sulla pancia, di più piatti su di un solo braccio serviti da camerieri, piedi piatti e con la voce flebile, o dai padroni premurosi ed indagatori. La gastronomia è ormai, per il commensale giovane e per chi è indaffarato, la forma più istantanea del servizio, e negli uffici, nei posti di lavoro dove non vigono i fast food o le mense standard, tra due fette di pane o nel panino ci mettono farnie, fretta, istanze dieteiche, sottaceti, burro e alici, con tutte le problematiche sindacali e gli scatti di stipendio. Ormai “il piatto d’autore”, come cibo esemplare, e il panino, come cibo distratto, formano le nuove coscienze gastronomiche.
La quotidiana sfida alla fame e consistita nell’esiguità e povertà delle derrate da trasformare, per cui la cucina locale e quella lucana in particolare sono il risultato d’innumerevoli tentativi che gli uomini fecero nei secoli per elevare modeste derrate in cibi vari e appetibili. Ora perdendo il contatto e la memoria del cibo, con il cibo dei padri, viene a mancare un importante elemento di comprensione e di continuità culturale.
Nelle lontane ere della fame, vi era la gente che si avviava con il fagotto per tuffarsi presso santuari nel brulichio di folle e di animali, (anche con la speranza di poter raggranellare qualche soldo).
Perciò vi è un rapporto onirico con la fame, tant’è che la cultura della sobrietà sopravvive ancora oggi per le provviste che le famiglie ancora approntano meticolosamente.
Vi è anche la “fame ancestrale”, uno stadio della fame medianica di un popolo che per una tale reminiscenza è ormai divenuto buongustaio. Ecco perché da noi il sapere è reminiscenza.
Per il mito della fame, per una sorta di superstizione esoterica, non si poteva buttare neppure una mollica di pane, senza farsi il segno di croce e baciarla.
Forte diventava anche il sentimento di ospitalità, e secondo il comandamento religioso, bisognava dar da mangiare agli affamati. Non v’era, contadino, masseria o anche povera gente, che non fornisse ai Viandanti il Vino, il pane e un po’ di minestra.
Eraclide lo sostiene: “I lucani sono ospitali e giusti”.
D’inverno, a Natale o a Capodanno si poneva nel focolare un grande pezzo – perché ardesse tutta la notte: “La Madonna, se passa, Potrà asciugare il Bambino”. Il mendicante che avesse bussato, sarebbe stato rifocillato.
I tizzoni accesi, invece, ‘iacchere‘ o fiaccole, servivano ad illuminare il passo per andare di notte nelle Vie o in Chiesa. E nevicava, quando nevicava, talmente tanto, per notti intere, da raccogliere monti di neve a chiudere i vicoli e le porte delle case. E le feste di Natale, di Pasqua, di san Gerardo erano attese con ansia, e di Carnevale, per largheggiare in lauti banchetti e speciali Vivande, senza però uscire – scrive Raffaele Riviello – dalle provviste della “etichetta casereccia”, preparate e conservate sin dalla estate.
E così per una storia del sapore, per le sue sindromi, per qualche appunto che possa ritornare utile a tessere una traccia, ecco un remoto anno, “Il milleottocentosette, un autunno ed un inverno che contano, 8.608 abitanti per Potenza, la massima parte addetta alla cultura dei campi e alla pastura delle greggi, per l’indole agricola, per le condizioni dei tempi, per la mentalità dei poveri, per la sobrietà della vita, per il frugalissimo desco, per la provvidenza del bisognevole mediante prodotti del luogo e con l’industria di casa, per tutto e per quelli che sono gli irrefrenabili stimoli della gola.
Dal decurionato del 7 marzo 1818 si rileva come “mutatosi in certa guisa il modo di vivere, e cresciuti i bisogni, si avvertì l’esigenza di bandire l’appalto del macello delle carni, con l’obbligo di tenere due botteghe per l’uso della popolazione in due punti medi della città“.
Nel decurionato del 14 maggio 1826 ancora si legge che “fu fatto lo spianamento nella parte inferiore della piazza del Sedile, ove erano le baracche dei macellai, per dar comodo ai commercianti di animali nel Mercato della Domenica. Quel luogo era chiamato Bucceria, o beccheria: nome che si è conservato fino a qualche tempo fa per denominare un vicoletto. Fin d’allora si propose di scegliere un sito più acconcio per la vendita della carne e del pesce, e si designò il largo Tassiello, ove, negli anni successivi, si realizzò la Piazzetta“. Dalle statistiche degli anni novanta del novecento si deduceva quanto fosse stata difficile ed insopportabile la esistenza dei contadini nelle terre, quando nel circondario di Potenza la vite veniva coltivata su 11.968 ettari e il prodotto effettivo di vino era di 121.173 ettolitri, secondo i dati del raccolto del 1893, per un numero medio di viti di 5.380 per ciascun ettaro. La quantità di vino bianco era di 14.828 ettolitri, quella di vino rosso di 106.344 ettolitri. Il raccolto del granoturco nel 1893, esteso su di una superficie di ettari 8.621 per il circondario di Potenza, dava un prodotto di 81.322 ettolitri, mentre la coltivazione di fave, vecce, cicerchie, ceci, lupini e mochi, era di ettari 2.284 per ettolitri 14.431. Su 1.308 ettari di superfici coltivate a castagne, il prodotto era di q.li 5.660.
Per la produzione delle olive, su di una superficie di ettari 2.342, il circondario di Potenza produceva 5.531 ettolitri, di cui 24 q.li di olive conciate in salamoia. Né si parla di altri prodotti come legumi e patate… solo di 2.000 piante da frutto.
“Non faremo preamboli retorici, scrive il commentatore dei dati statistici, l’eloquenza delle cifre non ammette esordi accademici …”. Quelli sono anni di crisi e di paralisi di ogni attività e dei poteri pubblici “una crisi che in tutto quanto può interessare lo stato sociale, ci mette alla coda delle altre regioni”.
“… La gente Vive di angosce, affranta, senza affetti, senza avvenire, si alimenta male, alloggia peggio in umili casupole, in tuguri squallidi, umidi, affumicati, angusti, tra i cenci e le immondizie e il bestiame”. L’alimentazione è prevalentemente farinacea, scarso il consumo della carne, se non fosse per qualche pecora vecchia cotta lentamente nel pentolone con tutti gli ingredienti del cutturiedde, scarsissimo l’uso del vino tra i lavoratori della terra. Nel gennaio del 1898 – ci informa Riviello – furono macellati per la città 1.308 agnelli e capretti, 9 vacche, 12 buoi, 7 annecchie, 5 tori, 1 vitello, 5 agnelloni, 140 maiali (di privati 141); distrutti 5 visceri ed un maiale, sequestrati tre perché panicati. Si fuma meno che altrove con circa 229 grammi di tabacco all’anno per ciascun abitante; i manovali della terra, i braccianti e i contadini usano farsi le sigarette anche con le frasche del granturco; i vecchi con pipe improvvisate fumano foglie secche di noce ed altre erbe che ha uno un odore pressappoco somigliante al fumo di tabacco. Potenza, capoluogo della provincia, offre uno spettacolo indecoroso per lo stragrande numero di persone che abitano nei sottani (circa 4.550 rispetto alle 948 di Napoli). E la miseria non è solo in relazione alle pessime condizioni della alimentazione e della abitabilità, essa influisce su ogni aspetto della vita del popolo ed in ogni intrinseco ed esterno movimento delle vicende pubbliche.
Ciononostante Il Ventre di Napoli di Matilde Serao e Le Ventre de Paris di Emile Zola, erano voragini ben diverse dalle viscere di Potenza, piccola, città del sud senza una rete fognaria e senza un apparato gastroenterico di tutto rispetto, di città che tutte divora e tutto defeca. Non era quindi il mostruoso ventre di oggi, che macina derrate ingoiandole e digerendole nel tragitto che va dai mercati ortofrutticoli, dalle vendite organizzate dei supermercati, dalle carni macellate ai lunghi banchi di salsamenterie, di formaggi, dei diversi tipi di latte scremato o naturale, agli yogurt, dai panifici con cento forme e tipi di pane, ai dolci…
Dai grandi nosocomi alle cliniche private, ai ricoveri per gli anziani, alle carceri, alle caserme, ai refettori alle mense ecclesiastiche e laiche, alle mense di aziende, ai ristoranti, ai fast food, alle famiglie borghesi, piccolo borghesi e proletarie …
Un tragitto che fa confluire gran parte del materiale di risulta nelle discariche, o attraverso le fogne negli impianti di depurazione. Torniamo alla città dei primordi, la vecchia Potenza del 1890, senza fogne e senza economia. Qui i prefetti erano espressione assai fulgida del potere di Roma e per essi si prodigava tutta, la classe dirigente e si allestivano splendidi banchetti.
I braccianti andavano a massacrarsi giornate intere nei fondi dei signori per 15 o 18 soldi al giorno, con cui dovevano mantenere sé e i quattro o cinque figli e, non di rado, i vecchi genitori, cibandosi di cipolle crude, foglie di campo e peperoni. Il Carnevale, che non passava invano per l’aristocrazia potentina, già non significava più nulla per il popolo contadino abituato, una volta, a festeggiarlo. Sulla stampa, il “melanconico” scrive: “le famose feste delle pacchiane? Ovunque sepolcrale silenzio, se si tolgono i soliti schiamazzi di monelli, certe maschere, così per dire, e la ridda invernale dell’ultima notte. La ridda è l’effetto della scorpacciata degli storici maccheroni a ferretto, che il nostro lavoratore aspetta a mesi e talvolta ad anno…
Ricordando gli anni trascorsi, le belle feste pacchianesche, non sento il bisogno di chiedere ad alcuno la ragione, si intuisce … il divieto è imposto dalla miseria”.
IN COPERTINA Dipinto di Gaetano Chierici – senza titolo