LUCIO TUFANO E IL “KANAPONE”

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LUCIO TUFANO

Centinaia di eroi “affetti chi più chi meno da malattie vergognose, da carie, da lesioni alle vie respiratorie o ai reni, insignificanti o splendidi come quelli di Troia o di Junin, leggermente diversi dai ritratti che svaniscono nei casellari o negli album di famiglia, saturi di fumo e di alcool, come le loro impronte oscene e spettrali hanno scritto la storia …”  Jorge Luis Borges
«Sovente non risultano tanto perfette le opere fatte dalla mano di diversi maestri, quanto quelle cui ha lavorato un uomo solo»  Cartesio
Qui si tratta di una rassegna dei vinti, non di quelli catalogati dal Verga o dal Nutelli, reclutati nelle infime categorie del sociale, bensì di quelle entità antropologiche della marginalità e degli anonimi pur se titolari di protagonismo mai accentuato o divulgato dalla celebrità e dalla fama. Dovevo affidare ai tipografi questi appunti già da diverso tempo. Non ho mai incontrato occasione di riepilogo. Ho anche riflettuto su come avrei dovuto offrire questo lavoro, in quale veste o forma: un pamphlet, un’antologia monografica, un monologo o una narrazione per paragrafi. Avrei preferito la versione diario proprio perché tutto in esso parla del suo autore, la sua vista, il suo gusto, il suo olfatto, il suo senso globale per toccare il cuore di una città che è come il cuore di tutte le città, centralità reale e fittizia, subordine di tutte le altre, “amphalos” da cui tutto può avere origine e fine. Ma “Canapone”; non è solo il termine con cui s’indicano volgarmente le piante femminili della canapa ed il tessuto che se ne ricava, non è solo la canapa grossa, quell’ordinaria e ruvida, ma può anche essere un gioco, come quello dell’oca, come lo scopone, il kanastone, il bandierone di una paranza di “malandra” affiatati, soldataglia, brancaleonidi e canaglie, una grossa vela spiegata che corre sui marosi della polvere, tela grossa confezionata in balle, treccia, treccione, capo di fune attorcigliata, tela  finalmente, veste, non ricamata, ne eccentrica, ne colorata e, se volete darle una forma, una fitta rete di fili che s’incrociano solo per sovrapporsi e farsi, come dire, spessore, restando fra di loro paralleli. Ed è complessa e lunga la vita di un tessuto che si sdoppia nelle stagioni, ha le sue metamorfosi, muta identità, virtù dioica del suo seme, colore e composizione in canape d’inverno e canape d’estate, occupando spazi, approntando una rete per il mare, il sartiame, una gomena, un cordone come ponte, ombelico vegetale per l’attracco al molo del racconto.
Un tessuto è tutto, avvolge le fibre del corpo, asciuga il sangue, il sudore, s’impollina per nuove esperienze, curva una vita tra la nascita e la morte. Per quanto mi riguarda ne segue la trama, ne scopre il sipario, ricopre pudico il fosso che brulica, nasconde gli strappi dell’umano. Indicativo da noi della grande capacità di muovere e di fare che dà il denaro. È anche il telone usato dai commedianti, gli attori di un teatro mobile tra Tespi e la campagna, tra il teatro della tradizione, quello nomade e quello urbano localizzato nella piazza. Perciò la parola “Canapone” ha una somma di significati che scaturiscono dal suo accrescitivo, dal suono e dalle sensazioni che suscita: la campagna ed il centro abitato, il commercio ricco e l’attesa dettagliata e ambulante, l’Industria improvvisata e artigianale, le carestie e l’abbondanza, i singoli atti delle stagioni, la mietitura e la vendemmia, la rendita e la fatica, l’indigenza, il risparmio e la fiaba dello sperpero. Una dinamica espressa in elementi che hanno propensione per queste azioni, attitudini e variazioni. Difetti, eccessi, abitudini di vita, eloquenza del popolo e della storia, individui mimetizzati nelle masse organizzate. Si vuole così cogliere alcuni spessori del passato e ripercorrerne gli strati di ambiente urbano e popolare.
Si è voluto così restituire il colore ad un’epoca, non tanto da storici, quanto da scrittori del costume e della memoria, tesi a ritrovare frammenti, immagini, espressioni emblematiche di oggetti e concetti, di fatti e persone, quasi chincaglierie di simboli casarecci, di parole nostrane che si susseguono in un ordine naturale, quello della loro presenza sulla scena: le liti dei vicini, lo sparlottìo delle comari, il celebrato sapore di un noto piatto, l’odore del cuoio nell’antro del sellaio e l’altro, ancora più diffuso e di massa, quello della corte dei poveri, nelle sotterranee cantine di botti e di muffe dalle volte annerite dal tempo e dal fumo.
Così anche per il sudaticcio e acre odore di fustagno e di velluto sporco delle famiglie contadine in ressa intorno ai rozzi tavoli unti di vino e di grasso.
Nella città dei portoni che hanno nell’atrio sgabuzzini per i ciabattini a riparare scarpe rotte e ad approntare tomaie per quelle nuove, la via Pretoria e lì che scorre a tutte l’ore. È percorsa dalle irme, la piccola e la grande, dalle zitelle che ogni sera compiono tre giri per un medesimo destino, da personaggi laceri nella casacca e nelle toppe, scarpe scalcagnate alla frenetica ricerca di un pezzo di fortuna e novità.
Zì Vito si sposta con notizie e giornali su una carrozzella per poliomelitici, trainata dai cani. Nel vicolo Santa Sofia abita Cuncetta, la lavandaia del fiume, che ha tre figlie con la faccia cotta e il bel culo a tamburo.
E c’è l’euforia malinconica di “ué lu Zù dumàne è sanda Criscia” che riempie l’aria di scanzonato rispetto ai monelli che fanno il verso allo scemo, all’ebete assonnato e acchiappamosche. La banda di Mezzanotte opera tra sporte di pesche e di ciliegie e i baresi gridano l’estate nei sapori e nei colori dell’uva, dei fichi e dei polpi vivi. La villa di piazza XVIII Agosto si allunga giù, giù fino ai cetrioli degli orti, lo scimpanzé e l’orso sono nelle gabbie per il pubblico adulto e piccino della villa grande. Le guardie sono in alta uniforme, ed il comandante ha i gradi di Goering per i contadini che non lo conoscono. Si ostina al sequestro di tutte le palle di pezza. Ecco che ci rivediamo, distratti, intontiti dei molti enigmi, appesantiti dagli anni, dalle domande senza risposta, dai perché che non abbiamo saputo o che non sappiamo spiegare. Ecco che ci incontriamo storditi dal bagliore intermittente, dal buio penetrante e profondo. Ecco che ci risentiamo doloranti, dolorosi, addolorati per i colpi subiti e per quanto ancora ci infliggono gli omuncoli eletti nel magma sottoproletario degli imbecilli. Se la sola e vera scienza dell’uomo è l’antiquaria – come affermava Giacomo Leopardi – è anche vero che tutto ciò che si può rilevare dalla città che amiamo, quella invecchiata, che risente dell’antico e  del ricordo, è non solo scientifico e storia della civiltà urbana, ma fa parte di noi, delle nostre radici e della nostra cultura.
C’era la città. La città tutta intera, distinta e confinata nel suo contado; una città da salvaguardare, perché rischia, ha rischiato di scomparire, per abbandono, incuria o distruzione, o di essere sommersa, inglobata, anzi emarginata, segregata nel suo centro antico, spopolato a causa di una crescita edilizia che lungo i gironi della sua estesissima espansione ha spostato le abitudini e le famiglie che un tempo pullulavano nei vicoli.
Ora sembra che la comunità sia smarrita, non più in grado di vivere gli antichi spazi, ereditati secondo quella misura che consentiva la perpetuazione dei caratteri distintivi di una città, quell’equilibrio che animava la socialità e il dialogo. Ciò che è successo nel voler applicare in forma banalizzata le regole della modernità è il dramma delle distanze. Serpentone, Malvaccaro, Poggio Tre Galli, Macchia Romana, rappresentano la nostra Babele rovesciata, il frutto della necessità abitativa e del lucro, il peccato edilizio come atto demiurgico che non è più la confusione del comunicare, non è il richiamo degli uomini alla loro dimensione, bensì le torri del silenzio ove risiedono le solitudini popolate, i condominii senza l’affabilità di un vicinato, regno condominiale dalle frustrazioni discordi.
Ecco un brevissimo flash del teatro – città, della città nel suo spazio, nel suo tempo, constatando – scrive Kostas Axelos – come siano sue le leggi che presiedono il destino di tutte le città “il desiderio di vivere e di voler vivere, il desiderio di morire e di voler morire”;.
E Potenza vuole morire? Ci sono perciò città passatiste, prese solo dalla memoria irripetibile di quello che sono state, ci sono città che giocano tutto sul passato, e città che si proiettano unicamente nel futuro … Nessuno dei due poli opposti: il gigantismo e l’intimismo, ci può dare una soluzione. Eppure – dice Axelos – ci sono delle possibilità che si aprono, situazioni, ore e secondi, atmosfere e incontri carichi d’intensa poeticità.
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Sull' Autore

Quotidiano Online Iscrizione al Tribunale di Potenza N. 7/2011 dir.resp.: Rocco Rosa Online dal 22 Gennaio 2016 Con alcuni miei amici, tutti rigorosamente distanti dall'agone politico, ho deciso di far rivivere il giornale on line " talenti lucani", una iniziativa che a me sta a molto a cuore perchè ha tre scopi : rafforzare il peso dell'opinione pubblica, dare una vetrina ai giovani lucani che non riescono a veicolare la propria creatività e , terzo,fare un laboratorio di giornalismo on line.

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