La Basilicata tornerà al voto. Non si sa bene quando, ma una cosa è sicura: prima di maggio. L’ha deciso il TAR nella sentenza di ieri. Ma è solo l’ennesimo atto di una vicenda grottesca. Che testimonia un fallimento più grande: quello della riforma del Titolo V del 2001.
Il tira-e-molla degli ultimi mesi si spiega con il testo del nuovo articolo 126 della Costituzione. Che al terzo comma dispone: «L’approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto, nonché la rimozione, l’impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie dello stesso comportano le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio». In latino si dice: simul stabunt simul cadent.
È un principio che si applica anche nei Comuni. E che un tempo funzionava pure per le Province. Il vertice dell’esecutivo è legato a doppio filo con l’assemblea legislativa. Devono vivere assieme, altrimenti crollano entrambi. È questa la ragione per cui la Basilicata tornò a elezioni anticipate nel novembre 2013. Le dimissioni irrevocabili di Vito De Filippo travolsero il Consiglio regionale.
L’idea di fondo è che un meccanismo del genere induca stabilità. E in effetti, impedisce al Consiglio regionale di sostituire il Presidente della Giunta. Anzi, obbliga a una convivenza forzata. L’assemblea deve tenersi chi è al vertice anche se la questione induce a notevoli problemi politici. In altre parole: se i consiglieri regionali vogliono mantenere la poltrona, non possono negoziare la sedia più prestigiosa della Regione.
Il caso di Potenza è molto simile. Tutti i potentini hanno assistito negli ultimi cinque anni alle alterne vicende della Giunta De Luca. Alterne vicende che derivano dall’assurdo sistema elettorale delle elezioni comunali. L’elezione di un Sindaco non fa scattare automaticamente la maggioranza: se una coalizione avversa aveva ottenuto il 50% dei voti, per esempio, si ritorna al proporzionale. Il voto disgiunto però mandò al ballottaggio De Luca con Petrone. E dal secondo turno emerse il primo. Ancorché eletto con Fratelli d’Italia: partitino con ben poche preferenze, al primo turno.
È vero che la città di Potenza ha assistito a una singola Giunta negli ultimi cinque anni. E che i consiglieri comunali non hanno potuto far cadere De Luca, senza riesporsi allo scrutinio cittadino. Ma è sotto gli occhi di tutti che quest’ultima pagina dell’amministrazione comunale non è stata affatto agevole. Così come non sono agevoli questi ultimi mesi di consiliatura regionale. Perché le dimissioni o la sfiducia di Pittella avrebbero indotto nuove elezioni lucane. Un solido argomento per dissuadere la maggioranza da aprire un fascicolo politico a carico della Giunta regionale.
Sarebbe quindi il caso di superare questo principio antidemocratico del simul stabunt simul cadent. La politica non può e non deve essere costretta alla convivenza impolitica. Deve anzi essere messa in grado di rinegoziare le proprie scelte. In altri termini: o l’assemblea è libera di scegliere il vertice della giunta (come un tempo accadeva), o assemblea e giunta non devono essere tra loro collegate (come accade nei veri sistemi presidenziali).
Valgono a poco i discorsi di chi dice: «Eh, ma avremmo cento sindaci in cinque anni». Ciò che più conta non è il numero dei sindaci, ma la qualità dell’amministrazione. Anzi, e soprattutto, il messaggio morale della politica (cittadina, provinciale, regionale). Le assemblee devono tornare a essere aule di dibattito ed elaborazione, in cui l’autorità dell’esecutivo deve poter essere messa in discussione. Dobbiamo respingere la concezione dell’assemblea come passacarte del vertice-manager. L’esecutivo amministra, l’assemblea decide. L’assemblea è eletta per fare politica per cinque anni, per costruire compromessi, immaginare una strategia per l’ente che governa. È negli organi collegiali che vanno bilanciati gli interessi politici contrastanti. Per questo sono la sede naturale per l’elezione dei vertici esecutivi. Che appunto dovrebbero restare meri esecutori.
Cambiamo il Titolo V e le leggi che regolano gli enti territoriali. Permettiamo alle assemblee e ai consigli di fare vera politica sul territorio. Permettiamo loro di collegarsi ai cittadini e di pianificare programmi per le loro comunità. Non appendiamo le politiche territoriali al fragile e insidioso filo della carriera politica di consiglieri e vertici. Con ciò non insultando o accusando nessuno: la legge è sempre generale e astratta, e nel generale e astratto deve predominare ciò che è giusto.
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