L’UOMO CHE RACCONTAVA IL PAESE

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di GERARDO ACIERNO
Mi ospita una panchina del parco pubblico del paese, la prima delle cinque che costeggiano, sotto i pini, l’ordinato viale segnato da ghiaia e fili d’erba ben curati. In fondo si allarga un semicerchio di altalene, dondoli e scivoli colorati, occupato da bambini in libertà e da mamme con la sigaretta elettronica in una mano e lo smartphone nell’altra. Ė un luminoso tardo pomeriggio di maggio, il paese si prepara alla festa grande, le luminarie svettano nelle anse delle strette strade e la minuta piazza torna ad essere, per una settimana, il cuore e l’anima di questa comunità sempre più propensa alla partenza che alla restanza. Oltre il marciapiede i riflessi del tramonto si dipingono nelle vetrine di un bar davanti al quale si snoda una lunga fila di amanti del gelato artigianale. Alla fermata della corriera, poco più giù, gruppetti di adolescenti stendono, tra sorrisi e canti, piani di conquista dei locali notturni della vicina Potenza. La cosiddetta movida cittadina li attende. Osservo la loro ostentata sicurezza, il completo lasciarsi andare e apprezzo la scanzonata incoscienza così simile a quella mia di un tempo ormai lontano. Sorrido con loro ma so che questa loro avventura è roba d’altri; temo che questa brama che oggi li possiede possa trasformarli in comparse usate per scrivere una storia forestiera. Poi rifletto e mi dico che gli stessi timori avevano sicuramente provato anche i miei genitori per le brame del mio tempo. Certo non c’è molto di più da aspettarsi da un maestro di scuola, pensionato e passatista come me, lo so bene, se non queste amare conclusioni. E dire che so anche bene quanto mi costa questa melanconia: interi scampoli di vita che volano via e si dissolvono in mille pezzi. Eppure ogni volta che vedo questi ragazzi sparire su quella corriera, ingoiati dal chiaroscuro della sera, ripenso a quel mio tempo e ne riscrivo una pagina, mai la stessa, una pagina viva nel cuore e nell’anima, là dove la memoria signoreggia.  Per dirla col latinorum di manzoniana memoria, in illo tempore, a metà degli anni Sessanta, qui nel paese viveva Tanino V. al quale noi paesani affibbiammo il soprannome ‘treccani’, come la famosa enciclopedia, perché, dicevamo, egli aveva una elevata capacità di ricordare tutto quello che interessava il paese: fatti, persone, numeri, curiosità e soprannomi. Tanino conosceva perfettamente le targhe di tutte le auto del paese e anche intere pagine di vita dei suoi (si fa per dire) cari paesani. Una vera e propria enciclopedia vivente. Sapeva quasi tutto di tutti noi e di tutti noi era pronto a raccontare cose belle e meno belle. A seconda delle richieste, bastava chiedere: le date, i perché, i per come e i fino a quando degli accadimenti. Conosceva storie, storielle e fattacci, atteggiamenti, usanze e costumanze: era insomma considerato una sorta di memoria storica per cui qualcuno, manipolando e mischiando antropologia e magia, miti, leggende, credenze e superstizioni, lo paragonava a uno stregone, altri lo chiamavano con un certo rispetto lo sciamano del villaggio. ‘Taninotreccani’, all’epoca lavorava come fattorino alle Poste Italiane: svuotava i cestini dell’ufficio; sistemava, a sportello chiuso, i tavoli delle due impiegate; lucidava la scrivania del direttore; consegnava a casa dei paesani i telegrammi di condoglianze e quelli d’auguri con giusta misura e adeguato atteggiamento e accompagnava per le strade del paese i nuovi portalettere che ogni mese cambiavano. Viveva con gli anziani genitori nella parte più antica del paese. Non era un mostro di bellezza né primeggiava in altezza. Amava starsene appartato, ma le cose del mondo, compreso quello femminile, non lo lasciavano indifferente. Aveva problemi di linguaggio, parlava a mozziconi ma possedeva e coltivava le sue passioni: oltre a riempire il sacco della memoria con le vite degli altri gli piaceva camminare. Da giovane non andava mai verso una meta prestabilita. Non sceglieva mai un posto prefissato. Semplicemente andava fin dove le gambe lo portavano. Un giorno d’inverno, però, rimediò una brutta caduta sul ghiaccio davanti casa sua e cambiò abitudine. Da allora non oltrepassò più di un metro la pietra miliare contrassegnata dal n° 7 piantata all’uscita del paese e che indicava i chilometri per raggiungere Potenza. Andato in pensione e rimasto solo, Tanino di prima mattina lasciava la casa e arrivava al parco di piazza Risorgimento. Occasionalmente si fermava a salutare qualcuno o a scambiare due parole con qualcun altro. Eppure conosceva tutti e tutti lo salutavano. Si distraeva facilmente anche perché era solito tenere sempre basso lo sguardo. Canticchiava sui suoi passi, altre volte fischiettava, spesso si bloccava a pensare, anche in mezzo alla strada, rischiando di essere investito da un’auto. Entrava poco nelle botteghe e nei bar. Lo disturbavano il chiasso, la confusione, il fumo. Raramente si fermava a cenare nella pizzeria-rosticceria di Olimpio e quando lo faceva si accontentava di poca roba: una ciotola di patatine fritte, un paio di toast imburrati accompagnati da una fetta di prosciutto cotto, un quarto di rosso e un caffè. La domenica, una costina di maiale, oppure filetto di vitello. Quanto bastava. Raggiungeva il parco e passeggiava sotto gli alti pini che ricordava essere stati piantati da lui e dai suoi compagni di quarta elementare nel millenovecentocinquantasette. “Il nostro maestro di allora era il bravo Scipione Bola, di Pietragalla” rispondeva a chi glielo chiedeva. Al parco, Taninotreccani  faceva su e giù per il vialetto, ogni tanto raccoglieva qualcosa che intravedeva tra le siepi del lauroceraso oltre il quale c’era l’ingresso degli Uffici comunali. Poi si sedeva sulla panchina e chiudeva gli occhi. Per un po’ si addormentava, si ridestava e riprendeva a camminare fino alle ultime case di periferia, seguendo la pista pedonale che da lì scivolava, dolce, verso le vigne di contrada ‘La Creta’. Il giorno della settimana che gli piaceva di più sostare sulla panchina del parco – sempre la stessa panchina, legno chiaro e piedi di bronzo arrugginiti – era il sabato. Il sabato pomeriggio, di mezza primavera, intorno alle cinque. Il sabato delle bicilette, dei cani col padrone o con la padrona, il sabato dei bambini sulle giostrine sistemate negli angoli più assolati. C’era luce tutt’intorno e tra i rami degli alberi soffiava sempre una brezza con un respiro che saliva e scendeva dalla vallata della gravina fino al campanile della chiesa di San Nicola come l’onda sulla spiaggia. Lontanissimo, a quell’ora, si colorava il tramonto e Tanino proprio a quell’ora si sentiva l’uomo più felice del mondo. Beh, certo. La felicità di Tanino scaturiva dal ricordo di quando noi, adolescenti di quindici, sedici anni, solo maschi, colorati, chiassosi, sudati e senza pensieri il sabato al tramonto sbarcavamo nel parco, e con lui si parlava, si discuteva, si scherzava, gli facevamo domande ottenendo lucide risposte sulla vita paesana. Una volta Rocco, il piccoletto della nostra compagnia gli disse: “Ciao, Tanì, stasera parliamo di bande, ti va?” E Taninotreccani senza farselo ripetere due volte partì come un treno sui binari della memoria, quella sua e quella ereditata dagli altri venuti prima di lui: “Millenovecentoventinove – attaccò Taninotreccani – Banda di Gioia del Colle, terza domenica di maggio, festa della Madonna, maestro, direttore d’orchestra, Paolo Falcicchio. La banda aveva vinto da poco il primo premio a Stoccolma a un raduno internazionale. Venne a suonare prima qui da noi che in Puglia dove l’aspettavano per acclamarla” “Altre date famose? – chiedemmo in coro. “Millenovecentocinquanta – riattaccò Tanino. Sempre il giorno della festa patronale. Orchestra lirico-sinfonica del Maestro Carlo Vitale, di Taranto. Un successone. Quel giorno si rivoltò tutta Potenza. Qui in paese non c’era un metro di strada libera la sera dello spettacolo. Il giorno dopo Chinuzzo, il mugnaio, incontrando un suo amico disse: “Finalmente dopo un giorno e una notte vedo un paesano!” “Ancora, ancora!!” insistemmo noi, sempre più incuriositi da quelle scarne note di cronaca locale, pensando e sbagliando, che nella vicina città tutto questo fosse merce introvabile: benedetto campanilismo…. “Millenovecentottantadue, quattro bande, sfilata comune, i vetri delle case che a momenti si spaccavano al passaggio del corteo. La Processione infinita. Terminava di suonare una banda e attaccava l’altra. Musica per tutto il tempo della funzione religiosa. Una goduria immensa. E la sera con il finale di Turandot suonato da tutte e quattro le bande, centosessanta persone, centosessanta strumenti che suonavano! Sembrava il paradiso in terra…” Partì un applauso alla fine del racconto. Qualcuno corse a stringere la mano a Taninotreccani, strano personaggio del paese che fischiettando motivi bandistici pian piano s’avviò lungo i vicoli eterni per tornare a casa visibilmente felice. Noi, eccitati e senza pensieri, andammo a suonare e cantare sul muretto del bivio fuori porta, quello sulla provinciale per Potenza là dove terminava l’illuminazione pubblica, si allungavano le ombre e che noi avevamo battezzato ‘il muretto della terza luce’.
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