
LUCIO TUFANO
Battevano il ferro, definitivamente sconfitto, vinto dalla volontà tenace, l’indomito ferro, dalla forza, dal fuoco, dal talento dei fabbri, disseminati come segnaletica primordiale, come squilli di una ritmica, martellante sonorità, ridotto in anima rovente, in lampada incandescente dentro la fucina che avvampa ed alimenta la fornace necessaria a bollirlo, a prostrarlo, a piegarlo, a renderlo malleabile e flessibile. Gli artieri del ferro battuto, disseminati, per sporadici punti della città, uscivano per mercati e fiere, con il pesante ingombro delle manifatture, incontro al gusto ed alla bisogna degli acquirenti.
Era lì, in quegli antri terribili, cavernosi e bui che il ferraccio della Magonza, rifuso e purgato, diventava ferro pronto per il possibile lavoro del nostro Magnano, cioè del più provetto degli scultori e di tutti gli artieri che lo battevano sull’incudine, man mano che il garzone menava il mantice.
A portata di mano dei mastri, o su loro ordine, frettolosi i garzoni porgevano le tenaglie a nasello, a sgorbia, a massello, a taglio, i tanaglioni e le cesoje per il taglio e la morsa del filo rovente, della lama rosseggiante.
La forbice provvedeva e scattava al punto giusto.
Fonderie-officine, ove il ferro rifuso colava informe per essere lavorato e ridotto in utensili, parapetti per terrazze e balconi, alari, scalpelli, zappe e marre … per i letti e per i diversi arnesi.
C’erano maestri che avevano lunghi anni di mestiere, quelli che conoscevano la tecnica della lavorazione, e quelli che erano stati alla guerra ed avevano lavorato da soldati per i carri militari e per i muli da carico, nelle zone del Carso e del Piave. I maniscalchi rappresentavano un grado elevato della maestranza, ed i contadini portavano dalla campagna qualche buona cosa per loro: gallucci, frutta, uova fresche, salsiccia, ogni volta che il maestro doveva praticare un salasso al cavallo, nei giorni in cui una stagione cede il posto ad un’altra. Con il bisturi piegato, si praticava il colpo con il torcinaso, si tamponava la ferita dell’animale, praticando dei forellini con lo spillo e si suturava legando con un crine i lembi della pelle.
Con gli attrezzi essenziali giravano per le fiere in previsione d’interventi di soccorso ai numerosi quadrupedi.
Confidente del contadino, una specie di veterinario, s’accorgeva dell’asma del cavallo, o apriva i polli per castrarli, facendo loro saltare anche la cresta, per farli incaponire, o imprigionava con le forcine il nervo, attanagliando le corna, per la stessa operazione praticata alle vaccine, somministrava l’infuso di certe radici ai buoi ed ai muli per sanarli dal male misterioso. Allora il mestiere si rubava con gli occhi, ed i ragazzi incantati osservavano le opere dei maestri, con la grande ambizione di imitarli, di esercitare un giorno la loro stessa magia.
I fabbri di S. Rocco erano in sintonia con gli zingari. Era la caratteristica del borgo, non ancora rione, una stazione di confini; più oltre scorrevano i nastri dell’aperta campagna.