Tito: la più conservativa tra le parlate galloitaliche lucane

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1.Tito: la più conservativa tra le parlate galloitaliche lucane

Lu Titu [lu ˈtitu]  ‘Tito’ (PZ) è situato su uno sperone a dominio della valle della çumara [çuˈmara] ‘fiumara’ di Tito. Conta, circa 7.300 abitanti, e riveste un importante ruolo commerciale e industriale all’interno della conurbazione del capoluogo di regione, Potenza.

Il toponimo è attestato per la prima volta in “Catalogus Baronum” (aa. 1150-1168) «Matheus de Tito tenet de eodem Comite Titum quod est feudum…» ‘«Matteo di Tito regge lo stesso territorio di Tito come feudo»’; successivamente si ritrova menzionato nel Rationes Decimarum APULIA-LUCANA -Potenza- (a. 1310) «Clerus Titi» ‘«Clero di Tito»’. Il nome potrebbe essere un riflesso dell’antico personale “Titus” da cui, secondo Franco Fanciullo (Franco Fanciullo ha sostenuto quanto riportato, nel corso di un confronto verbale con chi scrive), si avrebbe anche il cognome diffuso in area settentrionale e nella zona di Potenza “Lo Tito / Lotito”, con la conservazione o la concrezione dell’articolo determinativo, presente anche nel toponimo dialettale del paese. Altra ipotesi è costituita da una retroformazione dal latino “titŭlus”, inteso come ‘titolo, cippo di pietra opportunamente sagomato indicante il confine di un terreno dato in concessione’, continuato successivamente come appellativo geografico. Il Racioppi (1876) proponeva un etimo poco attendibile che partirebbe da una deformazione del greco “υειωδης” -teiodes- che significa ‘solforoso’.

«Il viaggiatore che in uno scompartimento di III classe nel tragitto da Napoli a Taranto presti attenzione alla conversazione dei contadini che salgono ad ogni stazione, si renderà subito conto che nel primo tratto, se si trascurano variazioni nell’intonazione e differenze locali minime, la base linguistica è sorprendentemente unitaria. Ma subito dopo la profonda valle del Platano, dalla stazione di Picerno in poi il quadro cambia. Improvvisamente arrivano all’orecchio del viaggiatore forme foniche che non si adattano assolutamente alla situazione osservata  fino a quel momento … E così si continua anche dopo che il treno ha superato le stazioni di Tito e Potenza…».  G. ROHLFS (1931) / (1988).

Queste le parole con le quali il grande Gerhard Rohlfs tra gli anni ’20 e gli anni ’30 del ‘900 annunciava la scoperta di alcune parlate di origine settentrionale che definiva “dialetti galloitalici di Basilicata”. Rohlfs individuava un nucleo di dialetti galloitalici fortemente conservativo che denominava “quadrilatero”, costituito dai centri di: Tito, Pignola, Potenza e Picerno. Le ipotesi sul motivo della presenza di genti del Nord Italia in Basilicata sono molteplici e affascinanti anche se nessuna è stata dimostrata. È un dato di fatto, invece, non solo che la parlata titese sia settentrionale ma anche che sia il dialetto galloitalico più conservativo in regione. Chi scrive ha avuto la possibilità di condurre un’approfondita inchiesta linguistica a Tito, confrontando la parlata della generazione giovane con quella della generazione anziana:

«L’inchiesta condotta mostra una dimensione dialettale solida e vitale. La generazione dei giovani titesi è legata alle proprie radici linguistiche e, di conseguenza, ancorata a una lingua arcaica e conservativa. Il dialetto titese mostra i maggiori cambiamenti, come è naturale, soprattutto dal punto di vista del lessico che progressivamente fa registrare l’influenza del modello della lingua tetto. Al contrario, i fenomeni linguistici settentrionali mostrano una tenuta sorprendente; non danno segni di cedimento e non presentano particolari contaminazioni da parte delle parlate meridionali. Il comune di Tito, negli ultimi due decenni, si è reso protagonista di un forte incremento demografico, dovuto allo sviluppo economico e industriale nella zona dello scalo ferroviario, inoltre la posizione del paese risulta particolarmente privilegiata, favorita dalla bisettrice autostradale del raccordo Sicignano-Potenza e dalla vicinanza strategica al capoluogo di Regione. Questa situazione per il momento, non sembra aver minato la presenza dei tratti settentrionali nel dialetto titese, anzi, la tenuta del galloitalico è sorprendente, tanto che, anche coloro i quali non hanno origini familiari titesi ma vivono a Tito dalla nascita, mostrano tutti i fenomeni settentrionali più salienti».

 (Tratto dalla tesi di laurea magistrale di Potito Paccione: «Le parlate gallo-italiche lucane: analisi linguistica comparata dei dialetti di Potenza e Tito in tempo apparente» A.A. 2016-2017).

Analizziamo nello specifico i fenomeni galloitalici:

Dittonghi settentrionali: il dialetto di Tito presenta dei dittonghi in presenza di dati suoni, nettamente differenti dai dittonghi metafonetici di tipo meridionale. I fonemi che innescano la formazione dei dittonghi sono i seguenti: -r- [-r-], es: cuórë [ˈkworǝ] ‘cuore’; suóra [ˈswora] ‘sorella’; iéra [ˈjera] ‘era’; -v- [-v-], es: uóvë [ˈwovǝ] ‘uova’; chiuóvë [ˈkjwovǝ] ‘piove’;  nuóva [ˈnwova] ‘nuova’;  -l- [-l-], es: dënzuólu [dǝnˈdzwolu] ‘lenzuolo’; rrasuóla [r:aˈswola] ‘spatola per la pasta’; miélu [ˈmjelu] ‘miele’; affiélu [aˈf:jelu] ‘fiele’; -gn- [-ɲ-], es: tiégnu [ˈtjeɲ:u] ‘tengo’; viégnu [ˈvjeɲ:u] ‘vengo’ ; -š- [-ʃ-], es: cuóšë [ˈkwoʃǝ] ‘cuoce’; iéššë [ˈjeʃ:ǝ] ‘uscire’; -gli- [-ʎ-], es: vuógliu [ˈvwoʎ:u]; accuóglië [aˈk:woʎ:ǝ] ‘raccogliere’; miégliu [ˈmjeʎ:u] ‘meglio’; -(g)-  [-ɣ-], es: mbuó(g)a [ˈmbwoɣa] ‘scalda’; fuó(g)u [ˈfwoɣu]; -chi- [-k:j-] / -ghi- [g:j], es: papuócchiu [paˈpwok:ju] ‘papocchio’; uógghiu [‘wog:ju] ‘occhio’. Gli esempi mostrano un’altra caratteristica peculiare del dialetto titese, la conservazione delle vocali finali: -u [-u], -a [-a], -i [-i].

Palatalizzazione della vocale centrale tonica -a- [-a-] > -ã- [-æ-]: il dialetto di Tito fa registrare esito palatalizzato di -a- [-a-] in sillaba tonica, aperta. Per la verità questo fenomeno è in perdita nella parlata titese, pertanto si registra una co-occorrenza di forme che presentano la palatalizzazione di    [a], e forme che non la presentano, es: bãšu [ˈbæʃu], in co-occorrenza con bašu [ˈbaʃu] ‘bacio’; cãšu [ˈkæʃu], in co-occorrenza con cašu [ˈkaʃu] ‘cacio’;  nãsu [ˈnæsu] ‘naso’ in co-occorrenza con nasu [ˈnasu] ‘naso’.

Lenizione dell’occlusiva bilabiale sorda intervocalica -p- [-p-] > -(b)- [-ß-] /-v- [-v-]: l’occlusiva bilabiale sorda -p- [-p-], in posizione intervocalica, diventa fricativa bilabiale sonora -b- [-ß-] o  fricativa labiodentale sonora -v- [-v-], es:  sa(b)é [saˈße] / savé [saˈve] ‘sapere’sóva [ˈsova] ‘sopra’; crava [ˈkrava] ‘capra’; cuvèrta [kuˈvɛrta] ‘coperta’; cuvèrchiu [kuˈvɛrkju] ‘coperchio’; nëvó(d)ë [nǝˈvoðə] ‘nipote’.

Lenizione dell’occlusiva dentale sorda intervocalica -t- [-t-] > -(d)- [-ð-] / -d- [-d-]: l’occlusiva dentale sorda -t- [-t-], in posizione intervocalica, diventa fricativa dentale sonora -(d)- [-ð-] o, come esito innovante, occlusiva dentale sonora -d- [-d-], es: nëvó(d)ë [nǝˈvoðə] / nëvódë [nǝˈvodə] ‘nipote’; mari(d)u [maˈriðu] / maridu [maˈridu] ‘marito’; avi(d)a [aˈviða] / avida [aˈvida] ‘avete da (dovete)’.

Lenizione dell’occlusiva velare sorda intervocalica -c- [-k-] > -(g)- [-ɣ-] / [-ø-]: l’occlusiva velare sorda -c- [-k-], in posizione intervocalica, diventa fricativa velare sonora -(g)- [-ɣ-] oppure raggiunge il dileguo [-ø-], es: fuó(g)u [ˈfwoɣu] / fuóu [ˈfwou] ‘fuoco’; névë(g)a [ˈnevǝɣa] / névëa [ˈnevǝa] ‘nevica’; carë(g)u [ˈkarǝɣu] / carëu [ˈkarǝu] ‘carico’.

Esito -gghi- [g:j] del nesso -CL-: riconducibile al processo di lenizione è l’esito in occlusiva palatale sonora -gghi- [g:j] del nesso -CL-, a differenza dei dialetti meridionali che, invece, restituiscono occlusiva palatale sorda -cchi- [k:j], es: uógghiu [ˈwog:ju] ‘occhio’; régghië [ˈreg:jǝ] ‘orecchie’; gënógghiu [dʒəˈnog:ju] ‘ginocchio’.

(-)G- / (-)D- / (-)I- + -E-/-I- > (-)g- [dʒ]: l’affricata palatoalveolare sonora (-)g- [dʒ], l’occlusiva dentale sonora (-)d- [-d-] e la semiconsonante palatale (-)i- [-j-], seguite da [-i-] o [-e-] restituiscono affricata palatoalveolare sonora (-)g- [dʒ], es: gënógghiu [dʒǝˈnog:ju] ‘ginocchio’; giórnu [ˈdʒornu] ‘giorno’; giuvà [dʒuˈva] ‘giocare’; giù [dʒu] ‘andato’; gi [dʒi] ‘andare’; maggiu [ˈmad:ʒu] ‘maggio’.

(-)S- + -E-/-I- > (-)š- [ʃ]: la fricativa alveolare sorda (-)s- seguita da [i]o [e]restituisce sibilante palatoalveolare sorda (-)š- [-ʃ-], es: cušë [ˈkuʃə] ‘cuce’; bašu [ˈbaʃu] ‘bacio’; accuššì [ak:uˈʃ:i] ‘così’; ši [ʃi] ‘si’; vulišši [vuˈliʃ:i] ‘volessi tu’.

Caduta della sillaba finale contenente -n- [-n-]: il dialetto di Tito fa registrare la caduta del gruppo sillabico contenente nasale alveolare -n- [-n-], in fine di parola, es: lu uaglió [lu waˈʎ:o]  / lu vaglió [lu vaˈʎ:o]‘il ragazzo’; palló [paˈl:o] ‘pallone’; mattó [maˈt:o] ‘mattone’; [ka]‘cane’; ppà [p:a] ‘pane’; tè [tɛ] ‘tiene’; matì [maˈti] ‘mattino’.

L- > ḍ- [ɖ-] / d- [d-]: la laterale alveolare [l-] in posizione iniziale restituisce occlusiva retroflessa sonora ḍ- [ɖ-] come esito più arcaico ma in perdita, occlusiva dentale sonora d- [d-] come esito innovante ma più diffuso, es: ḍënzuólu [ɖǝnˈdzwolu] / dënzuólu [dǝnˈdzwolu] ‘lenzuolo’; ḍéngua [ˈɖeŋgwa] / déngua [ˈdeŋgwa] ‘lingua’; ḍégna [ˈɖeɲ:a] / dégna [ˈdeɲ:a] ‘legna’. La laterale restituisce gli stessi esiti anche quando svolge la funzione di articolo determinativo prevocalico, es: ḍ’ uógghiu [ˈɖ_wog:ju] / d’ uógghiu [ˈd_ wog:ju] ‘l’occhio’; ḍ’òrtu [ˈɖ_ɔrtu] / d’ òrtu [ˈd_ ɔrtu] ‘l’orto’; ḍ’ógna [ˈɖ_oɲ:a] / d’ógna [ˈd_oɲ:a] ‘l’unghia’.

Palatalizzazione di (-)s- [s]preconsonantica, categorica davanti a occlusiva velare sorda -c- [-k-] e occlusiva bilabiale sorda -p- [-p-]: la fricativa alveolare sorda (-)s- [s]seguita da occlusiva velare sorda -c- [-k-] o occlusiva bilabiale sorda -p- [-p-] diventa sibilante palatoalveolare sorda (-)š- [ ʃ ], es: šcappa [ˈʃkap:a] ‘scappa’; šcarpa [ˈʃkarpa] ‘scarpa’; ašcósu [aˈʃkosu] ‘nascosto’; šparà [ʃpaˈra] ‘sparare’; špià [ʃpiˈa] ‘spiare’; ašpëttà [aʃpǝˈt:a] ‘aspettare’. Il fenomeno della palatalizzazione di [s]  preconsonantica è in realtà presente sul territorio lucano, anche nelle parlate che non hanno origine galloitalica, ma solo in alcune occorrenze. (-)S- > (-)š- [ʃ], categoricamente, solo nei dialetti galloitalici e nei dialetti con forti tracce di galloitalicità. A tal proposito, si riporta quanto sostenuto da Del Puente:

«In effetti la palatalizzazione è presente nei dialetti dell’area settentrionale da cui si presuppone vengano i coloni che hanno fondato tanto le colonie galloitaliche di Sicilia che quelle di Basilicata, ma il tratto non è mai stato considerato indicativo di settentrionalità probabilmente perché nel sud è altrettanto diffuso. In effetti, solo in Basilicata, data la sporadicità della palatalizzazione della sibilante preconsonantica o la sua completa assenza, è possibile rilevare come peculiarità settentrionale la sua presenza costante» (Del Puente 2015:319).

Apocope dei participi passati: i participi passati dei verbi subiscono l’apocope della sillaba finale, es: só ggiù [so ˈd:ʒu]‘sono andato’; só vvënù [so v:ǝˈnu]‘sono venuto’; aggiu magnà [ˈad:ʒu maˈɲ:a] ‘ho mangiato’; aggiu giuvà [ˈad:ʒu dʒuˈva] ‘ho giocato’; si tturnà [si t:urˈna]‘sei tornato’; è ccagnà [ɛ k:aˈɲ:a] ‘è cambiato’.

Anteposizione del possessivo con i nomi di parentela: la parlata titese fa registrare l’anteposizione del possessivo con i nomi di parentela, es: mi amma [mi ˈam:a]‘mia mamma’; më suórë [mǝ ˈsworǝ] ‘mia sorella’; mi frà [mi fra]‘mio fratello’; tó ffrà [to f:ra]‘tuo fratello’; mi figliu [mi ˈfiʎ:u]‘mio figlio’; mié mmaridu [miˈe m:aˈridu] ‘mio marito’; só ssiri [so ˈs:iri]‘suo padre’, tó ssiri [to ˈs:iri]‘tuo padre’.

Derivazione dal dativo dei pronomi mi [mi]‘me’ e ti [ti]‘te’: a differenza dei dialetti meridionali che mostrano le forme derivate dall’accusativo latino me [me]‘me’ e te [te]‘te’, il dialetto titese fa registrare le forme derivate dal dativo, come avviene nel Nord Italia, es: cu mmi [ku m:i]‘con me’; cu tti [ku t:i]‘con te’; a mmi [a m:i]‘a me’; a tti [a t:i]‘a te’.

Forma avverbiale Qqui [k:wi] ‘qui’: i dialetti meridionali fanno registrare la forma qqua [k:wa] ‘qua’ derivata da AECCUM HAC, mentre il dialetto di Tito, come avviene nelle parlate galloitaliche, mostra la forma qui [kwi]‘qui’ derivata da AECCUM HIC.

Forme femminili per ‘miele’, ‘sale’, ‘fiele’: i dialetti galloitalici fanno registrare forme femminili come continuatori dei nomi neutri MĔL; SAL; FĔL; il dialetto di Tito presenta forma femminile per ‘sale’: la sala [la ˈsala], mentre per miele e fiele, si registra articolo femminile e vocale finale –u, peculiare dei nomi maschili: la miélu [la ˈmjelu]‘il miele’; l’affiélu [l_aˈf:jelu]  ‘il fiele’, quest’ultima mostra concrezione della vocale -a [-a] dell’articolo determinativo.

Spie lessicali galloitaliche: il dialetto titese fa registrare diverse forme lessicali di origine galloitalica, differenti rispetto ai tipi lessicali meridionali,  es: la tèsta [la ˈtɛsta]‘la testa’ (galloitalico) vs capa/-ë [ˈkapa/-ǝ] (meridionale); la cuna [la ˈkuna]‘la culla’ (galloitalico) vs naca [ˈnaka] (meridionale); siri [ˈsiri] ‘padre’ (galloitalico) vs patrë[ˈpatrǝ]/ attanë [aˈt:anǝ] (meridionali); dònna [ˈdɔn:a] ‘suocera’ vs sò(g)ra [ˈsɔɣra]/sòcëra [ˈsɔtʃǝra] (meridionali); ógghia [ˈog:ja] ‘ago grande’ vs achë [ˈakǝ] (meridionale).

Gli studi del progetto A.L.Ba. stanno portando alla luce importanti novità riguardo alle colonie galloitaliche di Basilicata. I dialetti galloitalici lucani fanno registrare dei tratti siciliani che potrebbero testimoniare un possibile passaggio in Sicilia delle genti che hanno fondato i centri galloitalici lucani. L’ipotesi sarebbe tanto più confortata dalla presenza di paesi di lingua galloitalica in territorio siciliano. Importante spia di sicilianità potrebbe essere costituita dalla fricativa palatale sorda (-)ç [ç] come esito del nesso (-)FL-, tratto diffuso nel dialetto titese, es: çuççafuó(g)u [çuç:aˈfwoɣu] ‘soffietto per il camino’; çumë [ˈçumǝ] ‘fiume’; çórë [ˈçorǝ] ‘fiore’; çórë dë cu(g)ózza [ˈçorǝ dǝ kuˈɣot:sa] ‘fiore di zucca’. In verità, la fricativa palatale sorda si registra, ma come esito regressivo, anche in alcune parlate dell’area liguro-piemontese. È, invece, largamente attestato nelle colonie galloitaliche siciliane.

Esito inconfutabilmente siciliano, invece, è la geminazione della vibrante alveolare in posizione iniziale R- > rr- [r:-]: la rrana [la ˈr:ana]‘la rana’; lu rròšpu [lu ˈr:ɔʃpu]‘il rospo’; lu rramu [lu ˈr:amu]/ la rrama [la ˈr:ama]‘il ramo’; lu rrèstu [lu ˈr:ɛstu]‘il resto’; la rrasuóla [la r:aˈswola]‘la spatola per la pasta’.

 

Il dialetto galloitalico di Tito costituisce un’importante testimonianza dell’antico e illustre passato della Basilicata, oggi purtroppo sempre più vittima di spopolamento, a causa della migrazione di giovani e famiglie, ieri invece, meta di arrivo di genti in cerca di una vita migliore. Custodiamo e tramandiamo la bellezza del dialetto galloitalico, importante e affascinante patrimonio linguistico che racconta una storia, la storia di una Basilicata meta d’arrivo, culla di sogni e aspettative e non punto di partenza da abbandonare.

Potito Paccione

 

2.Uno sguardo all’A.L.Ba.

Apriamo il primo volume dell’atlante Linguistico della Basilicata, diamo un’occhiata alla carta 1, Sez. II ‘La testa’.

I dialetti meridionali fanno registrare generalmente il tipo lessicale capa/-ë [‘kapa/-ə] dal latino CAPŬ(T); nell’area del Vulture sono attestati anche continuatori del latino volgare COCHLEA che designava la conchiglia, ma anche il guscio della tartaruga e il vaso di coccio, successivamente per slittamento semantico ha finito per designare la calotta cranica umana.  In particolare si registra la còzzë [la ˈkɔt:sə]a Rionero in vulture (Pdr 9); la còzzëa [la ˈkɔt:səa]a Ripacandida (Pdr 10); còza [ˈkɔtsa] nei paesi di lingua arbëresh: Barile (Pdr 6), Ginestra (Pdr 7), Maschito (Pdr 11).

Come si evince dalla carta, le parlate galloitaliche, invece, fanno registrare generalmente continuatori del latino tardo TESTA. Anche questo termine indicava in origine la conchiglia, il guscio, ma anche il vaso di coccio, e successivamente per slittamento semantico ha finito per designare la ‘testa’ umana: la tåèsta [la ˈtɑ(ɛ)sta]a Picerno (Pdr 37); la tèsta [la ˈtɛsta]a Tito (Pdr 44) e Potenza (Pdr 38); la tèstë [la ˈtɛstə]a Pietragalla (Pdr 26) e Vaglio Basilicata (Pdr 35); a tèsta [a ˈtɛsta]a Trecchina (Pdr 124); a tèstë [a ˈtɛstə]a Pignola (Pdr 48), Rivello (Pdr 117) e Nemoli (Pdr 119). L’unica colonia galloitalica a non aver conservato la spia lessicale settentrionale è Albano di Lucania (Pdr 45) che fa registrare la forma a chë [a ˈkəpə].

Potito Paccione

 

3.Tito e la tradizione dei falò di San Giuseppe

A 150 anni del Decreto Quemadmodum Deus, con il quale papa Pio IX proclamò San Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica e a 5 anni dall’inizio del Giubileo Straordinario della Misericordia, Papa Francesco ha indetto un anno speciale dedicato a San Giuseppe. L’omaggio a San Giuseppe è stato suggerito dal particolare momento che il mondo sta vivendo: durante questa grave pandemia la vita di noi tutti è sostenuta da persone (medici, infermieri, operatori sanitari) assolutamente “comuni” che stanno “dietro le quinte” e non compaiono nei titoli dei giornali. Questo ci fa pensare a San Giuseppe, l’uomo che è stato sostegno e guida nei momenti di difficoltà e che quindi ha avuto un ruolo fondamentale nella vita di Gesù con la sua presenza quotidiana, ma il suo “esserci” è stato comunque discreto, riservato. A Tito è molto sentita la festa di San Giuseppe tanto da avere un vero e proprio “cerimoniale”: i fuochi di San Giuseppe li fuó(g)i dё San Gisèppu in onore del Santo che si tengono il 18 marzo, ma si inizia molto tempo prima, perché i giovani cominciano a raccogliere più fascine possibile per far si che il falò duri il più a lungo possibile, anche tutta la notte. Il falò ha un’importanza particolare: è il saluto alla primavera che sta per iniziare e un augurio per il buon andamento dell’annata agricola. A Tito si tratta di una vera e propria gara tra gli abitanti dei vari quartieri per la raccolta di fascine che poi vengono accese nei vari rioni lu vёšёnanzu [lu vəʃəˈnandzu]del paese, in competizione tra loro per il falò più grande, bello, più ospitale e duraturo della notte. Col tempo, questa pratica è diventata un vero e proprio momento di aggregazione di tutta la comunità che, come dicevo, inizia diverso tempo prima, nel mese di febbraio, a raccogliere rametti secchi da bruciare chiamati špròcchi [ˈʃprɔk:i]. Non è difficile trovare questi rametti perché in questo periodo, dopo la potatura, le campagne sono piene di tutto questo materiale. In effetti, il prodotto che si trova più agevolmente sono i tralci della vite salëmèndё [saləˈmɛndə] che, dopo la potatura della pianta, vengono raccolti in fasci perché sono utilizzati quotidianamente per accendere il fuoco nelle case. Il materiale un po’ più raro e ricercato sono, invece, i rami di ginestra gënèstra [dʒəˈnɛstra] che, oltre ad avere un effetto più immediato nella combustione, hanno anche un risultato più spettacolare nella struttura dei rami da bruciare che viene chiamata castёllana [kastəˈl:ana]. Il pomeriggio del 18 marzo si prepara tutto e la sera vengono accesi i fuochi. Ogni rione accende il suo e quindi si può andare in giro tra le strade e ammirare il falò più bello: sóvё lu Castiéddu [ˈsovə lu kaˈstjed:u], sóvё lu Cummèndu [ˈsovə lu kuˈm:ɛndu], sóttё d’òrti [ˈsot:ə ˈd_ɔrti], a la Fundaniédda [a la Fundaˈnjed:a], sóvё la Chiésa [ˈsovə la ˈkjesa], sóvё la Tóppa [ˈsovə la ˈtop:a], mbè dё la tèrra [mbɛ də la ˈtɛr:a], mbè dё lu bórgu [mbɛ də lu ˈborgu]. Ogni rione, oltre a occuparsi di allestire il falò, accoglie gli spettatori con ottimo cibo della tradizione, canti e stornelli. I cibi che tradizionalmente si preparano per questa occasione, sono: carnё a la brašё [ˈkarnё a la ˈbraʃə] ‘carne alla brace’ soprattutto ainu e savёcicchia [ˈainu e savəˈtʃik:ja] ‘agnello e salsiccia’, patatё frittё e puparuli a l’acitu [paˈtatə ˈfrittə e puraˈruli a l_aˈcitu] ‘patate fritte e peperoni all’aceto’, fu(g)accia dё (g)raddinii [fuˈɣat:ʃa də ɣraˈd:inii] ‘focaccia di granturco’, accompagnati da lu vì a la fiašchètta [lu vi a la fjaˈʃkɛt:a]‘vino (bevuto) alla fiaschetta’. Se i giovani hanno il compito di alimentare il fuoco, gli adulti intonano canti popolari della tradizione accompagnati dall’organetto. Ne riportiamo di seguito due: Marìùzza la pacchianèlla [maˈriut:sa la pak:jaˈnɛl:a] ‘Maria la pacchianella’ e Nn’èvё nu vicu [ˈn:_ɛvə nu ˈviku] ‘C’è un vicolo’.

Marìùzza la pacchianèlla                                   Maria la pacchianella

Marìùzza la pacchianèlla                                       Maria la pacchianella

Marìùzza bbèlla t’aggia špusà                              Maria bella ti devo sposare

ì t’addummannu addóvё vai                                 io ti chiedo dove vai

– Vaggiu a lu cambu a špi(g)ulà.                           – Vado al campo a spigolare.

Marìùzza la pacchianèlla,                                     Maria la pacchianella,

Marìùzza bbèlla t’aggia špusà                             Maria bella ti devo sposare

e si savía ca iéri sóla, ì tё vёnía                           e se avessi saputo che eri sola, io sarei venuto

a:ccumbagnà.                                                        ad accompagnarti.

Marìùzza la pacchianèlla,                                     Maria la pacchianella,

Marìùzza bbèlla t’aggia špusà                             Maria bella ti devo sposare

– ì cumbagnía, ì nu_nnё vuógliu,                          – Io compagnia non ne voglio,

pёcché mё sacciu ben riguardà.                          Perché so ben guardarmi.

Marìùzza la pacchianèlla,                                      Maria la pacchianella,

Marìùzza bbèlla t’aggia špusà                              Maria bella ti devo sposare

e ssi cavégli ca tu tё créšši, tu tё li                       E quei capelli che ti fai crescere, tu li

créšši pё nnammurà                                               fai crescere per far innamorare.

– ì só na rózza condadinèlla, i vaggiu                    – Io sono una rozza contadinella, io vado

fuóra a ffatё(g)à.                                                     in campagna a lavorare.

Marìùzza, ì bbè tё vuógliu,                                     Maria, io ti voglio bene

Marìùzza bbèlla n’amma špusà.                            Maria bella ci dobbiamo sposare.

 

L’altro canto tradizionale che si usa cantare durante questi momenti di aggregazione è:

Nn’èvё nu vicu                                                   C’è un vicolo

Nn’èvё nu vicu ch’è llungh’e stréttu,                  C’è un vicolo che è lungo e stretto

è ttuttu chiénu dё malaggèndё,                          è tutto pieno di cattiva gente,

ma tu biondina nu li sta a ssèndё                        ma tu biondina non starli a sentire

quédi ca parlёnё malё dё mi.                                quelli che parlano male di me.

Gira da qqui e zómba da ddà,                               Gira da qui e salta da là,

quést’è la vita e l’amórё amma fà.                        questa è la vita e l’amore dobbiamo fare.

Quédu ca dì pò èssё vèru,                                      Quello che dici può essere vero

ma ì aggia arbё assai d’uógghi                               ma io devo davvero aprire gli occhi

e si ndenziónё sèriё tu tì,                                         e se tu hai intenzioni serie,

èia a la casa pёšcrammatì.                                       vieni a casa dopodomani mattina.

Gira da qqui e zómba da ddà,                                  Gira da qui e salta da là,

quést’è la vita e l’amórё amma fà.                          questa è la vita e l’amore dobbiamo fare.

Pёšcrammatì è bbèll’e arrivadu                               Dopodomani mattina è bello e arrivato

e Laviéru s’è ndulёttadu,                                            e Laviero si è preparato

mbiéttu nё battё fòrtё lu cuórё                                 in petto gli batte forte il cuore

e pё ccòddu[1] tè lu trёmórё.                                    e addosso ha il tremore.

Gira da qqui e zómba da ddà,                                    Gira da qui e salta da là,

quést’è la vita e l’amórё amma fà.                            questa è la vita e l’amore dobbiamo fare.

Ì só vёnù indё sta casa,                                               Io sono venuto in questa casa,

ch’è ttanda bbèlla e tant’accuglièndё,                       che è tanto bella e tanto accogliente,

vё vuógliu dì ca tiégnu l’amórё                                   vi voglio dire che provo amore

pё ttó ffiglia Andunìèlla.                                               per tua figlia Antonella.

Gira da qqui e zómba da ddà,                                    Gira da qui e salta da là,

quést’è la vita e l’amórё amma fà.                             questa è la vita e l’amore dobbiamo fare.

Assettattё sóvё stu šcagnu,                                         Siediti su questo sgabello,

ca ì tiégnu mbò che ffà,                                                ché io ho un po’ da fare,

prima mё davu e dòppu parlému                               prima mi lavo e poi parliamo

dё quédu fattu ca tu mё vu dì.                                     di quel fatto che tu mi vuoi dire.

Gira da qqui e zómba da ddà,                                        Gira da qui e salta da là,

quést’è la vita e l’amórё amma fà.                              questa è la vita e l’amore dobbiamo fare.

E lu péššu a la tìèlla                                                        E il pesce nella pentola

e la carnë a la ratiglia                                                     e la carne sulla graticola

“si lei mi date la vòstra figlia,                                        “se mi date (in sposa) vostra figlia,

ì v’accumingiu a cchiamare papà”.                                 io comincio a chiamarvi papà”.

Gira da qqui e zómba da ddà,                                           Gira da qui e salta da là,

quést’è la vita e l’amórё amma fà[2].                             questa è la vita e l’amore dobbiamo fare.

 

Ancora oggi questa tradizione è molto viva e sentita e, come tutte le nostre belle tradizioni, si è solo a tratti modernizzata ad esempio nell’intonazione di canti più attuali accompagnati da strumentazione più tecnologica rispetto al semplice organetto.

Quest’anno questa bellissima tradizione, come altre, non potrà essere vissuta, ecco perché, noi, nell’anno giuseppino e a pochi giorni dalla festa di San Giuseppe, abbiamo voluto ricordarla, con la speranza che presto torneremo a vivere tutte le nostre semplici consuetudini che tanto ci mancano.

 

[1] Alcuni dicono pë ngòddu

[2] Questa strofa si ripete sempre due volte per tutto il testo.

Teresa Graziano

4.Alfabeto dei dialetti lucani

ADL TITO

Irene Panella

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1 commento

  1. Gent.ma dott.ssa Ida Leone,

    ebbi il piacere di una sua risposta qualche tempo fa.

    ‘Talenti Lucani’, sempre attento alla cultura lucana, ha pubblicato un ottimo articolo del dott.Paccione sul dialetto di Tito, accompagnato da deliziosi spunti delle dott.sse Graziano e Panella.

    Ho scritto poche righe per congratularmi, che le invio, come ho fatto col suo direttore, sperando che trovi opportuno pubblicarle.

    La ringrazio, con tutti i miei auguri per il suo giornale, così utile e prezioso

    Maria Teresa Greco

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